Prof. Micelli, l’artigianato italiano è sempre riuscito a distinguersi nel panorama mondiale. In che modo si sta evolvendo il suo ruolo, oggi, entro il nuovo paradigma glocal?
L’artigiano rappresenta ancora oggi uno dei tratti essenziali della competitività del sistema industriale nazionale, anche e soprattutto in riferimento a quelle realtà imprenditoriali di medie dimensioni che compongono il cosiddetto quarto capitalismo italiano. A lungo abbiamo perpetuato un equivoco che non ha giovato alla comprensione del fenomeno: la sovrapposizione tra lavoro artigiano e piccole imprese. Rilanciare il lavoro artigiano non significa recuperare lo slogan “piccolo è bello”. Fermo restando che un’ampia quota del lavoro artigianale è riconducibile a contesti di piccole dimensioni, se noi guardiamo da vicino al successo di tante medie imprese del made in Italy, scopriamo che anche in questi contesti aziendali un ingrediente fondamentale della competitività è legato a un’idea e a una forma del lavoro che costituiscono un unicum a livello internazionale. Quando riusciremo a prendere atto di questo, scopriremo un filo rosso che lega trasversalmente il successo di tante piccole medie grandi aziende che portano a testa alta il nome del made in Italy anche nelle cosiddette economie emergenti.
Secondo lei, come può essere ripensato e promosso il Made in Italy, in un mondo interconnesso e attraversato da reti e flussi globali, dove quindi il ruolo degli stati nazionali sta mutando?
In una fase storica (anni ’60-70-80) in cui la produzione era riconducibile in modo preciso a specifiche economie nazionali e, nel caso italiano, anche a specifici contesti territoriali, si coniò legittimamente un’idea di made in Italy capace di saldare il concetto di territorialità con quello di qualità. Oggi questo è ancora possibile - ed è legittimo – ma non è più sufficiente. Ci si deve orientare verso una concezione più inclusiva, verso un made in Italy che promuova non solo il prodotto italiano, ma più in generale un’idea di lavoro, di produzione, anche in altri contesti nazionali, facendo della centralità dell’uomo, del suo saper fare, della sua creatività un elemento di competitività e di dignità. Da questo punto di vista le nostre aziende e il nostro paese dovrebbero farsi carico, un po’ come ha fatto Slow Food nell’agroalimentare, di promuovere non solo il prodotto italiano, ma più in generale un’idea di lavoro, un’idea di produzione, un’idea di relazione tra domanda e offerta nel sistema industriale.
Quanto ai modi per promuovere un progetto di questo tipo, credo sia importante essere innovativi. Nella promozione internazionale, siamo ancora molto legati ad un concetto di Stato, e quando pensiamo alla promozione del made in Italy nel mondo pensiamo alle ambasciate, agli istituti italiani di cultura, a tutte quelle proiezioni statuali che comunicano e veicolano l’immagine del nostro paese nel mondo. Questo ha funzionato per molti anni, oggi dobbiamo pensare a qualcosa in più. In un mondo interconnesso i nostri imprenditori devono presidiare oltre che una serie di occasioni ufficiali, anche altri momenti di aggregazione a livello internazionale, informali ma imprescindibili: si pensi alle grandi occasioni artistiche internazionali, all’opportunità degli expo, o alle stesse manifestazioni sportive. Devono essere presenti portando con sé non solo la loro attività manifatturiera in senso classico, ma anche il ruolo delle università, dei centri di ricerca, della cultura, del design. Questo allargamento dello spettro potrebbe infatti fungere da catalizzatore di un meccanismo di riconoscimento e di incrocio fra le aziende italiane più creative e innovative dell’Italia e gli italofili di tutto il mondo.
Quali sono gli elementi distintivi del talento “italico” e del nostro modo di fare business?
E’ la natura open source dei nostri cromosomi culturali a rendere spesso interessante la nostra produzione, il nostro saper fare. La versatilità dei nostri prodotti fa sì che essi diventino rapidamente una componente naturale dello stile di vita e della quotidianità di altri popoli, in una dinamica di adattamento che comporta naturalmente delle evoluzioni rispetto al canone originale. Credo che sia importante mantenere un approccio non impositivo, ma al tempo stesso dar vita a un costante processo di rielaborazione del nostro paradigma culturale, non per motivi di superiorità o di egemonia culturale, ma proprio perché l’italianità, o “italicità”, come la definisce Piero Bassetti, è essa stessa in costante evoluzione.
6 marzo 2012, intervista a cura di Globus et Locus (V. Trevisan)