Nel suo ultimo saggio intitolato proprio "Sprawltown. Cercando la città in periferia" analizza le dinamiche delle nuove città-diffuse. Milano è già da tempo una glocal city e l'arrivo di Expo 2015 accelererà i processi che la caratterizzano: quali sono, secondo la sua teoria, gli aspetti che la definiscono?
Innanzitutto, bisogna dire che la "città" non esiste più da cinquant'anni perché è scomparsa la differenza tra contado e centro. Siamo noi a cambiare il tempo e il tempo cambia: è una provocazione per dire che abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio. Prima la metafora era semplice: la città era un corpo, ma con lo sprawl il corpo è stato smembrato: si è passati dalla città difesa alla città diffusa. Se si guarda oggi la pianta di Milano, per esempio sorvolandola di notte con un aereo, ci si accorge subito di come Milano sia molto simile al disegno di un hardware, o più semplicemente di un aeroporto. Ci si accorge di quanti flussi e nodi la attraversano: sono dinamiche apparse molto velocemente e stanno diventando dominanti in tutte le società, anche nel terzo mondo. Sprawl non è una forma, per quanto possa avere conseguenze formali, ma è un modo di vivere: tecniche di comunicazione che usiamo ogni giorno rendono tutto più virtuale e meno radicato nello spazio; attraverso le tecniche di "teletopia", come le chiama Paul Virilio, il mondo è stato de-spazializzato anche se non completamente. Il tutto si racchiude nell’immagine che ho descritto prima, anche se per me lo sprawl non è solo un fatto fisico ma anche sociale. To sprawl è un verbo – sdraiarsi - e town un sostantivo che significa centro urbano, densità: io voglio mantenere insieme questi due concetti, non voglio cedere al rischio della perdita d’identità, o del nomadismo, o della perdita dei valori civici.

In che modo Milano ha vissuto questo processo?
Guardare la pianta di Milano è sconcertante perché non si capisce più dove è il centro, tutto è sparpagliato. Il processo è partito con diffusion – per cui la città ha cominciato a diffondersi lungo le direttive e a espandersi oltre il centro –, per poi passare a fusion – in cui il territorio comincia a fondersi come è accaduto per le circa 60 municipalità intorno a Milano –, il cui risultato è confusion: si arriva alla confusione perché alcuni fatti importanti della città, prima concentrati nel centro, ora sono sparsi per il territorio. Anche se non è detto che la confusione sia brutta, anzi, porta la bellezza della complessità. Milano non ha la bellezza classica di una pianta normale, ma a ben guardare assomiglia molto a un quadro di Pollock. Oggi Milano potrebbe essere un modello di città "sprawlata" perché ha tanti elementi di centralità che producono una cultura civica interessante.
Come vincere le sfide che l'Expo pone a questo territorio diffuso, che vive oltre i confini del Comune, e anche oltre quelli della Regione Lombardia, fino a coinvolgere tutto il Nord?
Esiste un fattore fondamentale: le infrastrutture. Milano è una città dalle grandi infrastrutture e con l’Expo dovrà costruirne altre: è necessaria una profonda riflessione su come progettarle. Io credo alle infrastrutture come arte. Per Milano questa sarebbe la strada giusta: dovrà trattare le infrastrutture come arte di vivere e arte visuale. Ogni nuova estensione di autostrada potrà diventare un pretesto per un parco oltre che essere portatrice di bellezza di per sé. Pensiamo al Ponte di Scozia progettato da Benjamin Baker nel 1873 come opera bella in sé, anche se poi fu duramente criticata da Morris. Col passare del tempo cambia il nostro modo di vedere e un’autostrada può essere bella come un’opera d’arte, come una cattedrale del nostro valore principale, la velocità.
Oltre ai flussi migratori, Milano con l'Expo attirerà altri flussi, quelli turistici: come impatteranno sulla città?
Questo è un fattore importante ma anche un rischio. Tutte le città belle del mondo come Roma, Firenze e Venezia stanno diventando delle semplici cartoline perché sono città da consumare. Ci sono 2 miliardi di turisti nel mondo - una persona su quattro – che producono un grande inquinamento antropologico. L'Expo entra in questa dinamica, ma Milano ha un fattore che può salvarla: la produzione. Se vogliamo un turismo che non distrugga la città è necessario che la produzione sia sempre presente. Bisogna deconcentrare lo sguardo, come ha fatto Parigi, portare molti elementi fuori dal centro. L' Expo è un'occasione per creare attrazioni democratiche e incentivare la produzione.
Intervista a cura di Stefania Battistini
↑ torna all’indice