Per un'identità cosmopolita

Abbiamo posto alcune domande a Riccardo Giumelli, ricercatore, autore della tesi di dottorato “Sguardo Italico e Cosmopolitismo. Nuovi orizzonti a partire dal modello Italo-Francese”, presso la Facoltà di Sociologia della Comunicazione dell’Università di Firenze.

Dott. Giumelli, che definizione darebbe dell'italicità alla luce della sua ricerca?

L’italicità è ripensare l’identità italiana - intesa non come l’identità derivante dal passaporto, ma dall’appartenenza alla civilizzazione italica - in termini cosmopoliti, all’interno di un processo di globalizzazione che è in atto indipendentemente e dipendentemente da noi. Si tratta di ricostruire le variabili spazio/tempo dell’identità italiana, alla luce soprattutto degli studi effettuati da Giovanni Bechelloni. Spazio nel senso di comprendere tutti coloro che al di fuori dei confini nazionali condividono uno stile di vita, una cultura di appartenenza, un legame profondo con la nostra identità italica: cioè coloro che sono emigrati, le generazioni successive (gli oriundi); tutti coloro che seppure di altre culture hanno rapporti continui con la nostra perché la studiano, perché vanno spesso in vacanza in Italia, perché ne amano la cucina, perché hanno molti amici italiani, ecc..; ma anche i nuovi immigrati in Italia che lì vivono e che spesso tornano al loro paese portando con sé i cambiamenti appresi durante il soggiorno nella penisola.
Si tratta anche di ripensare la variabile tempo, nel senso di un recupero della nostra lunga memoria storica che non è solo quella dei vincitori, che di volta in volta si sono susseguiti e che hanno scritto la storia dell’Italia, ma è quella di un continuo processo di incontro/scontro fra culture diverse, indigene o meno, nella penisola italica. Una memoria cosmopolita che è sembrata scomparire dall’ideologica identità nazionale italiana nel suo senso moderno: dove gli italiani dovevano essere fatti, quando invece esistevano già da molto tempo ma non erano mai stati capiti.

Secondo lei, l'italicità ha un futuro nel senso che si compatterà e si riconoscerà in un tempo relativamente breve oppure è destinata a rimanere un legame generico e labile?

Sì, l’italicità ha un senso profondo ed attuale, ma il lavoro di presa di coscienza mi sembra molto lungo e difficile. Innanzitutto perché gli ostacoli non si trovano solo nella vulgata popolare dove gli stereotipi sull’identità nazionale nel bene e nel male continuano ad esistere, ma anche e soprattutto in una certa élite accademica, politica e giornalistica, dove il termine italico mi pare evochi esclusivamente echi lontani ed antichi.
L’errore più grande, tuttavia, sarebbe quello di considerare defunto l’impianto nazionale, che malgrado le sue difficoltà potrà rivelarsi utile e determinante nei processi di globalizzazione, come crocevia tra globale e locale.
Urge un’operazione di presa di coscienza, malgrado certe idee possano mostrarsi avanguardiste. E’ necessario attivarsi con una buona strategia comunicativa, con energie e risorse, con l’entusiasmo di chi navigando a vista sa che questa è la giusta via da intraprendere, o almeno una migliore delle altre. Un grave errore sarebbe quello di non accettare la sfida, di farsi prendere da derive nichiliste ed abbandonare lo sforzo per cercare riparo su rotte più sicure ma che potrebbero nel tempo rivelarsi suicide.   
Credo, quindi, che l’italicità potrà compattarsi, sempre che siano investite risorse sia materiali che immateriali, ma in tempi piuttosto lunghi. Non sono in grado di dire se ci saranno accelerazioni, rallentamenti, dipende dalla forza di attivarsi, di aumentare il consenso e l’approvazione sia nel settore elitario che in quello più popolare.

Per leggere l'intervista nella versione integrale:

Intervista a Riccardo Giumelli (versione integrale)

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