L’indipendenza del Kosovo: conquiste, dilemmi e prospettive
La dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, sostenuta da una massiccia adesione popolare, trova secondo i suoi promotori piena giustificazione nell’affermazione del principio di autodeterminazione. Un passo significativo è stato dunque compiuto; esso sottolinea l’importanza assunta da questo principio una volta superati i condizionamenti imposti dalla guerra fredda all’espressione di rivendicazioni nazionali e sub nazionali. Il passaggio dalle affermazioni sul piano della teoria alla loro applicazione nella pratica non ha mancato, d’altra parte, di porre seri problemi ai dirigenti delle principali potenze responsabili della stabilità sul continente europeo. La scelta dell’autodeterminazione ha suscitato infatti prese di posizione diametralmente contrapposte in merito alla legittimità di una decisione che aggrava le divisioni esistenti a tale proposito, sia all’interno del nuovo stato che sul piano internazionale.

Il groviglio di problemi manifestatisi a seguito dell’iniziativa kosovara sostenuta dall’Occidente non può essere motivo di sorpresa. La messa in opera dei principi ispirati all’ideologia democratica, di cui il diritto all’autodeterminazione è ormai assurto a elemento fondamentale, non si concilia facilmente con le regole tradizionali alla base del sistema internazionale. Per quanto oggetto di crescenti contestazioni il “tabù” della sovranità e dell’integrità territoriale degli stati rimane un termine di riferimento obbligato nella conduzione dei rapporti politico diplomatici. Il processo di consolidamento di una nuova formazione statuale, anche se in questo caso garantito dall’esterno, comporta una sfida di prima grandezza sia per il neo governo nazionale che per l’Unione Europea, nel suo ruolo di tutore. Conclusa la fase di attesa che ha portato all’attribuzione, se pure con sostanziali limitazioni, dello status di indipendenza al Kosovo, ha inizio il periodo, carico di incertezze, legato al perfezionamento della condizione di autonomia infine acquisita. Lo stato di diffusa arretratezza economico sociale e soprattutto il persistere di radicate tensioni fra comunità albanese e serba, in un contesto incline alla violenza e all’illegalità, sono motivo di forti preoccupazioni. A cui si aggiunge sul piano internazionale, come conseguenza del “precedente” kossovaro, il rischio di contagio del fenomeno costituito dal separatismo etnico, sia per quanto riguarda l’area balcanica, Bosnia e Macedonia in particolare, che la regione carica di potenziale conflittualità del Caucaso, Georgia in primo luogo.
Le conclusioni che si possono trarre da un primo approssimativo apprezzamento della situazione sono in larga misura scontate: stabilito che il principio di autodeterminazione nelle varie forme istituzionali e ai vari livelli nazionali e subnazionali in cui si esercita non può essere negato, si conferma l’esigenza per Stati Uniti e Unione Europea da un lato e Russia dall’altro, di gestire le contraddizioni legate all’indipendenza del Kosovo con il massimo di realismo e senso di responsabilità che la complessità, per non dire precarietà, degli attuali equilibri internazionali richiede.
Paolo Calzini
Intervista a Predrag Matvejevic'
Lo Stato nazione non è più il protagonista assoluto degli scenari geopolitici. Unioni sopranazionali come quella europea hanno assunto col tempo un peso politico sempre maggiore. Come mai in certe parti d’Europa, il caso più recente è quello della Serbia e del Kosovo, il nazionalismo rimane così vivo?

La crisi che oggi coinvolge il Kosovo è in realtà un groviglio di componenti nazionali e politiche, storiche e statali. I kosovari hanno proclamato l’indipendenza da parte della loro Assemblea. La Serbia ha offerto “più dell’autonomia, meno dell’indipendenza”, pretendendo di mantenere il Kosovo all’interno dello Stato serbo. Una formula il cui vero senso sembra poco chiaro o appositamente ambiguo: offrire “più dell’autonomia” non vorrebbe dire appunto concedere “l’indipendenza”? Il progetto Ahtissaari, che proponeva una “indipendenza sotto sorveglianza internazionale”, accompagnata da misure di tutela della minoranza serba in Kosovo, non è stato accettato da Belgrado. La Russia di Putin sostiene la Serbia, gli Stati Uniti e la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea - non tutti - sono pronti a soddisfare la richiesta che viene dal 90 per cento della popolazione albanese kosovara. Questa sorta di drammaturgia si svolge su una scena insanguinata da conflitti recenti. Alle differenze etniche e nazionali si aggiungono divergenze immaginarie o “mitologiche”. Ognuno pretende di avere radici più profonde dell’altro e ragioni più convincenti per impadronirsi dei territori vicini. Gli avvenimenti reali e le loro rappresentazioni fittizie si sostituiscono così gli uni alle altre. La storia e il mito si confondono, le rivendicazioni si basano tanto sulla prima quanto sul secondo, a volte su entrambi. Gli argomenti che si invocano e le “prove” che vengono fornite sono considerati irrefutabili o addirittura “sacri”: ci si impone in nome del diritto storico, oppure si rivendica in nome del diritto naturale. Questi due diritti si scontrano proprio oggi nel Kosovo. Ed è proprio nel caso del Kosovo rispetto alla Serbia che si può osservare la trasformazione di vari aspetti della cultura nazionale in una ideologia della nazione. Ideologia che, naturalmente, risulta anacronistica al resto dell’Europa.
Da un punto di vista globale, i Balcani sono percepiti come una macroregione. Sarà possibile crearvi in un futuro prossimo una “rete virtuosa” di contatti e scambi a livello locale in grado di sfociare in un discorso comune? La ragione cosmopolita riuscirà a vincere l’illusione delle identità separate (e spesso violente) secondo la nota tesi di Amartya Sen?
Gli spazi balcanici sono disseminati dalle vestigia degli imperi sovranazionali e dai resti dei nuovi Stati che li sostituirono; idee di nazione che risalgono al XIX secolo e ideologie internazionaliste prefabbricate dal “socialismo reale”; eredità di due guerre mondiali e di una guerra fredda; vicissitudini dell’Europa dell’Est e di quella dell’Ovest; relazioni ambivalenti fra Paesi sviluppati e quelli “in via di sviluppo”; tangenti e trasversali Est-Ovest e Nord-Sud, legami e fratture fra il Mediterraneo e l’Europa, tra l’Unione europea e “l’altra Europa”. Tante divisioni e faglie, linee di demarcazione o di frontiera, materiali e spirituali, politiche, sociali, culturali e altre ancora.
Per quel che concerne eventuali rapporti di “buon vicinato” fra Serbia e Kosovo, credo purtroppo – e, anzi, sono personalmente molto preoccupato al proposito – che questi si siano rovinati definitivamente nel 1999 quando Milosevic cacciò di casa centinaia di migliaia di kosovari e ne bruciò le case. Si trattò di una vera e propria dimostrazione di politica miope e oscurantista che ha lasciato dietro di sé animosità difficilmente superabili. Anche per quanto detto sopra a proposito delle mitologie nazionaliste che purtroppo tuttora fioriscono a quelle latitudini, dopo il recente conflitto sarà molto difficile stabilire buoni rapporti fra due realtà etniche tanto antagoniste. Certo, comuni interessi economici potrebbero smussare le animosità attuali, ma nel breve periodo non prevedo un deciso miglioramento delle relazioni fra questi due popoli dalla storia martoriata. Il compito che si è assunta l’Unione Europea, un compito molto difficile, resta quindi quello di aiutare innanzitutto economicamente tutta l’area coinvolta cercando di impedire che sorgano conflitti ulteriori che rinvierebbero sine die una vera pacificazione dei Balcani.