Nel mondo glocal, il fenomeno crescente delle mobilità (e quello della “mobilità dei cervelli”) sta modificando profondamente l’idea di cittadinanza e di appartenenza, che fino ad oggi è stata legata alla dimensione nazionale. In base alla sua esperienza, anche personale, gli scienziati e ricercatori italici che vivono negli Stati Uniti come concepiscono il loro rapporto con l’idea di “patria”?
Benché le stime circa il numero dei ricercatori Italiani in Nord America varino tra 5,000 e 20,000, è piuttosto facile individuare due macro-gruppi: coloro che si sono trasferiti permanentemente e coloro che trascorrono o hanno trascorso dei periodi significativi ma determinati in Canada o negli Stati Uniti. All’interno di questi due gruppi possiamo ulteriormente fare una distinzione generazionale under e post 50.
Dopo oltre 20 anni trascorsi permanentemente all’estero, credo di poter affermare che tutti mantengono una sorta di “imprinting patriottico” che –how very Italian!- si manifesta sia con segni di orgoglio nazionale esplicitati che in altri casi con espressioni di veemente repulsa. Quante volte capita di sentire dire ad un concittadino in qualche parte del mondo (scienziato o carpentiere per la verità…) che il Belpaese e’ un crogiolo perduto di difetti capitali mentre giura che darebbe il braccio destro per un piatto di puntarelle?! Umorismo a parte, ogni Italiano porta dentro di se’ per tutta la vita lo stesso tipo di sentimenti inestinguibili e magari contradditori che prova per un genitore. Una buona parte dei ricercatori che ho conosciuto ci tiene a mantenere contatti professionali oltre che personali con l’Italia per un senso di intimo legame, di dovere, a volte di gratitudine per l’eccellente educazione ricevuta in gioventù.
In questo senso ritengo che la nostra diaspora sia per nulla diversa dagli Italiani che rimangono nel proprio Paese d’origine. La similitudine, pur rilevante e profonda, si ferma qui. Penso che in gradazioni diverse, che dipendono dall’intensità e dalla durata del soggiorno, tutti coloro che vivono e lavorano qui sono fatalmente fertilizzati da una cultura cosi radicalmente diversa da determinare una mutazione cognitiva e valoriale. Nel caso del primo macro-gruppi distinto sopra, molti di noi hanno perso il senso assoluto della parola Patria poiché’ genuinamente chiamiamo “casa” due Paesi (o tre…). Molti di noi hanno due passaporti e soprattutto molti di noi hanno figli che parlano con un accento buffo e tornano in Italia per le vacanze come a visitare un parente amato e lontano. Non dimentichiamo poi che molti ricercatori hanno studiato all’estero, qui o in qualche Paese Europeo, prima di approdare negli Stati Uniti o in Canada.
Penso che la mutazione, in gradazioni più moderate, si riscontri in chi passi periodi di due o tre anni qui: forse la Patria rimarrà ancora solo una, ma I modi di relazionarsi con gli altri, con l’autorità, con il lavoro, con il collettivo saranno cambiati.
Infine, ho tenuto a sottolineare sopra le differenze generazionali perché nel mondo della ricerca anche più che in altri settori la significanza delle frontiere e dei paradigmi d’appartenenza e’ oggi molto flessibile per via dell’evoluzione tecnologica (social networking, comunicazioni, etc) ma in grande parte per l’esponenziale espansione dello scenario competitivo nel mondo dell’università e della ricerca. Pensare che l’abitudine a collaborare e vivere con persone in ogni parte del mondo influenzi solo le modalità operative e non anche le identità è a mio avviso ingenuo.
Come direttore esecutivo di ISSNAF, lei ritiene che esistano dei tratti distintivi del talento “italico” e del nostro modo di fare ricerca? Gli italici fanno rete?
Proprio qualche giorno fa riflettevo con il Presidente della nostra Fondazione, Prof Vito Campese, di come I ricercatori italiani, nelle scienze come nelle humanities, abbiano un impatto straordinario. Il track record dei nostri connazionali è strabiliante, specialmente nei settori ad alto contenuto d’innovazione o nelle lettere. Con tutte le dovute cautele delle generalizzazioni, si ha l’impressione che attraversare l’Atlantico consenta al potenziale di ciascuno di esprimersi al meglio, non solo per le circostanze oggettive (maggiori risorse, meritocrazia, etc) ma altresì perché’ il talento Italiano sembra piu efficace di altri nel combinare capacita e determinazione a flessibilità e creatività. Sempre generalizzando, I nostri ricercatori sono dei tutor molto amati: sanno motivare ed ottenere.
Sono forse meno certa della nostra capacità di far rete. La Fondazione ISSNAF, fondata nel 2008, è il primo esperimento che sia riuscito ad avere forma e dimensione significativi. Oggi abbiamo oltre 3,000 affiliati e grazie al sostegno di tantissimi volontari stiamo consolidando programmi come gli ISSNAF Awards che contribuiscono a sviluppare il senso di “comunità scientifica Italiana”. E’ inutile nascondere che rispetto ad altre nazioni e culture siamo meno proni a valorizzare l’insieme: siamo diffidenti quando le dimensioni trascendono il team, il clan. Anche questo è un tratto che, come il legame con l’Italia, non si perde facilmente…
La tecnologica ha dato all’uomo gli strumenti per influire in modo sempre più rilevante sul futuro dell’intero pianeta. Quale dovrebbe essere secondo lei il ruolo dell’innovazione tecno-scientifica in futuro?
L’innovazione oggi nasce dall’interazione sempre più profonda ed articolata di persone, esperienze, competenze. Ogni volta che visito un laboratorio di neuroscienze o un centro di documentazione rimango affascinata dalla compenetrazione delle discipline. In un collage di nazionalità ed etnie, interagiscono con naturalezza esilarante filologi e computer geeks, neuro scienziati e psicologi, fisici e storici. Credo profondamente che l’innovazione scientifica abbia scavalcato le frontiere della necessità e della curiosità finendo per diventare un grimaldello che ha liberato tutti, scienziati e non, dal conformismo delle competenze. Il glocalismo è una realtà tangibile o forse, proprio perché’ siamo diventati tutti glocal, molti lo sono e non lo sanno!
a cura di Globus et Locus (V. Trevisan)