L'esperienza di una scrittice italica

Elvira Dones, scrittrice di origine albanese, sceneggiatrice e autrice di documentari televisivi, divide la sua attività tra la Svizzera e gli Stati Uniti, dove attualmente risiede.  

La sua esperienza personale, ma anche quella della scrittrice, ha radici albanesi e fioriture svizzere, italiane e americane. Nel mondo, globale e assieme locale, ci sono sempre più persone che vivono concretamente delle pluri-appartenenze. Lei considera tutte quante sue queste appartenenze diverse?

Ritengo di possedere qualcosa da tutto ciò che amo: un piccolo qualcosa nel caso di un viaggio breve, un’isoletta più grande laddove ho posato l’esistenza per scelta e non per caso. Ho provato ad amare luoghi o paesi o persone sotto la spinta della sola curiosità, ma non è stato abbastanza. La curiosità intellettuale o letteraria deve avere una componente viscerale, altrimenti dentro di me resta il gelo, dal quale sfuggo. E’ come amare un frigorifero: non lo posso amare, nonostante ne riconosca l’utilità. Quindi, andando per ordine: l’Albania non la si può non amare. Non perché lì ci sono nata, ne parlo la lingua, ho parte della famiglia e tanti amici. Non provo il bisogno di identificarmi con un paese per senso del dovere; mi sono sempre trovata d’accordo con Cioran quando dice “Non ho nazionalità, e questo è lo status migliore per un intellettuale.” Amo l’Albania perché intensa, ruvida, sanguigna, delicata, pasticciona e acuta al contempo. E poi la amo perché piccola, una quantité négligeable nei grandi giochi geopolitici. L’Albania è una terra dove troppi stivali militari sono passati a calpestare e a opprimere, dove troppi stranieri sono sbarcati a calar lezioni. E siccome considero l’arroganza una forma spinta di cretinaggine, io mi incaponisco ad amare ancor di più l’Albania.
Per farla breve: sì, adoro il mio status di eterna viandante, la mia babele linguistica, le scelte che mi tocca prendere davanti a tutti i bivi di fronte ai quali vado a mettermi.
Dopo sedici anni di vita e lavoro in Svizzera, mi considero anche elvetica. Sono in contatto giornaliero con il Ticino, soprattutto, e ci ritorno ogni volta che posso.
Giusto per aggiungere un pizzico di pepe: considero la Svizzera la mia terra, ma non so se questo mio sentimento sia corrisposto. Per la stampa, anni fa ero la scrittrice albanese d’origine e svizzera di adozione. Oggi, da quando sono nuovamente emigrata, sono “solo” una scrittrice albanese che scrive in italiano. Come se quei miei sedici anni trascorsi in terra elvetica non fossero più con me, dentro di me. Come se per essere svizzeri – almeno un po’ – fosse necessario abitare sempre all’ombra del Cervino.
 
L’America mi appartiene, lo dico senza riserve, è altamente imperfetta e con una vitalità straordinaria. Il luogo ideale per un narratore.
Se dovessi rifare la mia vita, la rifarei esattamente allo stesso modo. Il viaggio al centro di tutto. Il resto attorno, in precario equilibrio, sì, eppure straordinariamente bello. 

Elvira Dones

Come mai a un certo punto della sua produzione letteraria ha scelto l’italiano come lingua d’espressione? Si definirebbe una scrittrice italica, nel senso che partecipa della vasta esperienza della lingua e della cultura nata e affermatasi in Italia e che poi si è espansa in tutto il mondo? Come definirebbe la sua identità letteraria?

Ho lasciato l’Albania per la Svizzera italiana. L’italiano è stato per anni la lingua di casa. Mia figlia è nata all’ospedale “Beata Vergine” di Mendrisio. Con mio figlio – nato in Albania - parliamo da diciotto anni solo in italiano. Ho vissuto in italiano, mi sono crogiolata nella lingua di Dante, da rifugiata in Svizzera ho pianto in italiano, ho sofferto in un italiano sgrammaticato, che ho poi cercato di affinare col tempo. Da qui, il passaggio alla scrittura direttamente in italiano è stato graduale, ponderato ma con naturalezza.
Mi considero una scrittrice italica e albanese al contempo. Non riesco a fare una scelta drastica, definitiva, a scapito di una delle due lingue. Scrivo in italiano. Il nuovo romanzo, non ancora pubblicato, l’ho scritto in italiano, e così sarà pure per il prossimo. Ma ho tra le mani alcuni racconti in albanese che raccoglierò in un volume, non appena saranno pronti...
E se per scrittrice italica intendiamo questo, e cioè scrivere in italiano e portare dentro di me come un gioiello prezioso l’italianità, la sua cultura, la sua musica, un certo savoir faire e la fantasia creativa all’italiana, allora sì, è ciò che mi sento di essere. Il lavoro mi porta spesso in Italia. Sono a casa a Roma, a Milano, a Torino.
La mia identità letteraria credo sia un métissage, ed è un métissage linguistico, culturale, geografico. Sono il classico caso di scrittore transnazionale. Attingo alle storie della varia umanità che mi circonda e che vado assiduamente a cercare, ma conservo le radici nei Balcani e nel Mediterraneo.
C’è questa piazza enorme, chiamata Mediterraneo. Offre se stessa. E’ lì, in tutto il suo confuso e spesso irrazionale splendore. E’ lì per farci scambiare pensieri, a volte insulti e risate e guerre; a sbirciare nelle similitudini e negli opposti, a osservare le radici intricate. Già “masticare” la storia del grande bacino mediterraneo è un’impresa titanica. Spesso tentiamo di conoscerci ma lo facciamo con una certa pigrizia, quasi svogliati. Oppure usiamo la curiosità in maniera ottusa, senza vera apertura mentale, e questo porta a suggellare, a rafforzare i pregiudizi piuttosto che la conoscenza.
La letteratura italica e quella mediterranea hanno molti punti in comune, ovvio, ma non sono la stessa cosa. Il mediterraneo è più largo dell’italicità, del mondo italofono, o come lo vogliamo denominare. Di conseguenza le sue lettere, le sue arti sono simili e diverse, complementari ma non gemelle...
Cosa c’è di italico nei miei scritti preferirei che lo analizzasse chi si occupa di queste cose. Quel che so è che sono una scrittrice che scrive in questa lingua, che legge costantemente letteratura italiana, anche per tenersi aggiornata su ciò che succede in campo letterario. So che non ho nessuna intenzione di abbandonare il mio italiano, anzi. Ma allo stesso tempo mi vedo, ancora una volta, non “incasellabile” in un solo piccolo compartimento. Sono una scrittrice mediterranea. E italica. E albanese. E un po’ svizzera. E abito in America. 


Perché, secondo lei, l’Italia è più spesso vista come una sorta di ricordo nostalgico piuttosto che come un modello a cui tendere? Piuttosto una mancanza da ricordare che una meta da raggiungere?

Forse perché fuori dall’Italia la sua cultura, il suo grande patrimonio, la sua indiscutibile ricchezza storica vengono oggi spesso accostati ai troppi governi, più o meno inetti, che vanno e vengono, alla mancanza di una politica seria, solida e ben mirata?
Si può condividere oppure contestare la percezione di un’Italia come il paese che fu, bello solo per il suo straordinario patrimonio storico-archeologico-artistico-culturale (e gastronomico). Ma certo è che l’Italia di oggi ha assolutamente bisogno di un serio lavoro di rivalutazione e di miglior gestione delle sue enormi risorse. Tocca all’Italia e alle sue istituzioni utilizzare con serietà e con lungimiranza ciò che l’Italia ha da offrire a se stessa, all’Europa e al mondo. Le lettere, la scienza e l’arte non possono funzionare a singhiozzo e fermarsi ogni volta che per motivi futili e assurdi cade un governo. Prima che un paese venga preso sul serio dagli altri, bisogna che impari a prendere sul serio se stesso.

a cura di Sergio Roic

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