Le nuove mobilità del mondo glocal e le politiche EU per l'integrazione, 19 luglio 2013
Un fenomeno globale, come l’immigrazione, ha profondamente modificato la realtà sociale dei paesi destinatari dei flussi migratori. In misura diversa, ciascun paese europeo al suo interno vive oggi una pluralità di culture, che ha contribuito a accelerare la crisi dello Stato-nazione, già provato dal crescente ruolo dell’UE. Il recente discorso di Papa Francesco sulla “globalizzazione dell’indifferenza”, tenuto a Lampedusa, pone l’accento sulle problematiche dell’incontro fra culture, nell’ottica di una necessaria convivenza fra queste.
Coesistenza che, come sottolineava Habermas ne Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza (in L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Milano, 1998), è possibile fra differenti «forme di vita culturali, etniche e religiose» presenti all’interno di una «comunità politica», purché «il piano della cultura politica comune» sia sganciato «dal piano delle subculture». La «tradizionale cultura politica liberale» può essere - sempre secondo Habermas - quel minimo comun denominatore in cui le diverse subculture possono riconoscersi. Ma ciò a patto che la democrazia liberale permetta a ciascuno di «sperimentare il valore d’uso» dei diritti, «anche nella forma della sicurezza sociale».
Integrare l’altro, permettendogli di godere di diritti, comporta - per Habermas - una maggiore possibilità che il migrante si riconosca in principi che lo possano accomunare con le popolazioni locali. Questo sembra essere anche l’approccio adottato dall’UE, almeno sin dal Consiglio europeo di Tampere del 1999 che ha sancito il diritto per i cittadini di Stati terzi, legalmente soggiornanti nell’UE, di godere di «diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’UE». Una proposizione di principio che si è poi concretizzata in atti dell’UE (in primis la direttiva 03/86), il più recente dei quali è la direttiva 11/98, che per la prima volta attribuisce alcuni diritti sociali a tutti i migranti (esclusi i soggiornanti di lungo periodo, già maggiormente tutelati). Fra questi, diritti che incidono sull’allocazione di risorse locali, come l’accesso a alloggi pubblici.
Ancora una volta l’UE regola un fenomeno globale incidendo nei rapporti fra le persone nelle comunità locali e imprimendo forza al processo d’integrazione degli stranieri, anche nei paesi meno solerti su questo fronte. Insomma, la direttiva 11/98, purtroppo non ancora trasposta in Italia, dispone qualcosa che somiglia al set minimo di diritti sociali suggerito da Habermas, che potrebbe aiutare l’integrazione del migrante e la sua adesione a quella cultura comune che, peraltro, è alla base dei diritti che gli vengono riconosciuti.
Un processo d’integrazione che prevede diritti per i migranti sempre più simili a quelli dei cittadini (con l’esclusione tutt’altro che irrilevante dei diritti politici) rende più sfumato il confine fra la condizione di cittadino e di straniero. A mio parere, ciò potrebbe creare l’aspettativa nella comunità, e soprattutto fra le minoranze, di un progressivo cambiamento del concetto di cittadinanza. Il recente dibattito italiano sullo ius solisembra essere prova di questa percezione diffusa. Infatti, a parte nicchie di resistenza, non v’è stata un’opposizione aprioristica alla proposta del ministro Kyenge.
Sembra dunque che l’UE, pur non avendo nessuna possibilità di incidere sulle norme nazionali di attribuzione della cittadinanza, sia in grado, attraverso l’esercizio delle sue competenze in materia di immigrazione, di contribuire a un mutamento della percezione dei fenomeni globali, quale l’immigrazione, a livello locale. Nuovi stimoli che possono indurre gli Stati a ripensare la cittadinanza e a riformarla, prendendo atto che le nozioni giuridiche, il più delle volte, devono adattarsi alla realtà per poter conservare la propria efficacia.
Fabrizio Di Benedetto
Dottorando di ricerca in diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Milano