Editoriale: crisi e glocalizzazione
Finalmente ci si comincia ad accorgere della vera natura dell’attuale crisi globale. Essa è stata generata, ha colpito, rischia di colpirci ancora in un contesto di organizzazione delle nazioni e del mondo che non è più quello della grande crisi finanziaria del 1929. Ci si accorge della sostanziale diversità delle problematiche da affrontare quando ad esempio si dibatte sull’attualità dei rimedi socio-economici di Keynes e sulla loro applicabilità in un contesto nuovo come il nostro. Le conclusioni dei più attenti indicano che la differenza è data dal nuovo contesto in cui viviamo. Contesto non più inter-nazionale in cui le nazioni si incontravano e si scontravano come entità autonome sulla scacchiera mondiale, ma glocale, un’interconnessione fitta e diretta di entità più o meno locali che non devono più fare capo a centri nazionali egemoni.
Nel nuovo scenario glocale le responsabilità della politica, dell’economia e della finanza sono appannaggio sia di coloro che controllano le dinamiche onnicomprensive globali sia di coloro che si occupano dell’impatto che queste dinamiche hanno sugli ambiti locali.
L’evidenza dell’avvenuto cambiamento di paradigma si è palesata allorché in Europa gli stati nazionali e i loro ministeri del tesoro hanno rifiutato di mettere in atto rimedi meta nazionali alla crisi asserendo di poter affrontare la problematica a livello nazionale. Nel giro di qualche mese le medesime entità nazionali si sono ritrovate nei vari consessi meta nazionali come il G2, il G8 o il G20 alla ricerca disperata di una dimensione diversa e comune in grado di rendere condivisibile tematiche chiaramente sopra nazionali. Infatti, oggi appare chiaro che l’intrecciarsi delle entità locali con fenomeni globali nuovi necessita un’organizzazione nuova e un’interfaccia con enti globali (ad esempio, l’FMI) secondo logiche nuove e originali.
Aver individuato la vera natura della crisi globale finanziaria è di buon auspicio. Ciò suscita, infatti, la speranza che l’approccio a una funzione globale fondamentale come la finanza e l’insieme delle regole che la concernono (la sua “governance”) sia raccordata in modo nuovo con le realtà finanziarie territoriali. E lo sia in modo politicamente responsabile non solo per quanto riguarda la sua razionalità globale ma anche nei suoi impatti con le logiche economiche degli operatori sul territorio (banche di credito ordinario e imprese).
La crisi si è sviluppata in tutta la sua virulenza allorché la finanza globale, dedita soprattutto a riprodurre il modello locale anglo americani su scala globale, è andata completamente fuori controllo. È ormai chiaro a tutti che essa non potrà essere né governata né controllata con un approccio imperiale o inter-nazionale. Essa esige, infatti, un approccio glocale, ben sintetizzato dalla prospettiva di emersione di nuovi raggruppamenti del tipo dei vari G. Il mondo è cambiato rispetto a quello di dieci anni fa e sono cambiati i suoi equilibri, rappresentati a livello globale da una bipolarità occidentale-orientale. Le conclusioni da trarre da questo cambiamento di paradigma di natura glocale sono piuttosto semplici. Oggi tutti quanti affermano che il nostro mondo è globale e globalizzato, che la sua organizzazione è funzionale, che le sue reti sono reti glocali. Se vogliamo evitare di trovarci affidati a un G2, cioè USA e Cina,una nuova architettura della regolazione politica finanziaria è ormai irrinunciabile. Quand’è, allora, che ci decideremo ad organizzare la politica e la governance con un reale riferimento alla domanda di articolazione dei ruoli che il glocalismo ci pone?
Columbus Day: il senso di una festa
Riportiamo qui l'ultimo numero della rubrica "Globo Italico ", a cura di Piero Bassetti e Niccolò d'Aquino, pubblicato sul noto quotidiano statunitense America Oggi

L’italicità, come tutte le aggregazioni, ha bisogno di occasioni in cui "riconoscersi insieme": eventi collettivi, feste, simboli. Nell’era della globalizzazione, del superamento dei confini nazionali, i vecchi simboli rischiano di essere, appunto, vecchi. L’italicità, che è lo sviluppo della italianità, che simboli potrà avere?
«La "festa" resterà sempre: è il momento di aggregazione nel quale la gente si riconosce. L’idea di "festa" nella quale ritrovarsi tra simili è una dimensione antropologica e culturale connaturata all’uomo. E non solo a lui. Ci sono tante specie animali che hanno forme di ritualità. Quello su cui, invece, penso che ci si debba interrogare è sul senso della festa. Che, forse, in questo inizio del Terzo Millennio è cambiato o sta cambiando. Mi si passi una battuta che non vuol essere blasfema: se un tempo si facevano le feste in onore della Madonna, oggi si va ai mega concerti dove canta la pop-star Madonna. La festa rock è ben diversa da una processione, certo: ma tutte e due, ognuna a modo suo, sono feste.
E tutte e due hanno una propria specifica ritualità. La ritualità, che - ripeto – è una modalità comune a tutte le feste, c’è sia tra la folla dei fedeli davanti alla teca del sangue di San Gennaro sia nel gruppo urlante delle teenagers ai piedi del palco dove si esibisce Bruce Springsteen. Due eventi ben differenti, ma sempre di ritualità si tratta».
Però concordi sul fatto che, se nel mondo si stanno creando nuove aggregazioni meta nazionali, ne consegue che queste cercheranno nuovi simboli che li rappresentino. Eventi collettivi importanti finora, come per esempio il Columbus Day, che è probabilmente la principale "festa" della italianità nel mondo, dovranno aggiornarsi?
«Il Columbus Day è certamente una festa. Ma oggi dobbiamo chiederci: festa di chi? Qual’era la mentalità e lo spirito che ha dato vita alle celebrazioni del Columbus Day? Era quella del sottolineare e ricordare, cioè festeggiare, l’arrivo degli italiani a New York e in America. Colombo, per la verità, era tecnicamente sbarcato in un’isola dell’America Latina. Ma il ricordarlo e il rendergli omaggio, per i discendenti di coloro che erano sbarcati a Ellis Island è l’occasione per darsi un’identità. La domanda vera quindi non è se ha ancora senso il Columbus Day. La domanda è: la community che anni fa festeggiava il Columbus Day è ancora la stessa oppure è, invece, una community ormai diversa? Per me la risposta è indubbia: si tratta di una community diversa. Non sono più i neo-immigrati o i loro discendenti di prima generazione. La "festa" non è più tra gente, in questo caso italiani, che si ritrovano per mettere insieme le diverse esperienze del loro sbarco in una terra nuova, per raccontare le loro storie agli altri della community ma anche a quelli delle altre communities presenti nello stesso territorio. A questo riguardo non dimentichiamoci - e il fatto mi sembra molto positivo – che queste grandi celebrazioni "etniche", dal Columbus Day al Saint Patrick’s Day, sono ormai da tempo occasioni di festa per tutti, non solo per coloro che a rigor di logica ne avrebbero diritto per la vecchia appartenenza di passaporto. Ma per tornare alla questione: il Columbus Day e le celebrazioni simili sono le feste degli italo-americani o degli americo-italiani? Secondo me si tratta della festa di una comunità nuova rispetto a quella degli "sbarcati". E che vuole quindi affermare una propria identità nuova».
E qual è questa identità?
«Rispondo facendo ancora l’esempio del Columbus Day. Questa "festa" originariamente era quella degli immigrati italiani a New York. E New York era, in fondo, soltanto una città americana. Oggi, invece, è diventata la "prima Città del mondo". E questo ha cambiato le cose. L’incontro degli "sbarcati" con una dimensione culturale come New York - e gli Stati Uniti in generale - si è sviluppato in qualcosa di diverso: perché New York non è più una terra lontana in cui gli emigranti che vi sbarcavano erano sì poveri ma provenivano comunque, e in molti ne erano consapevoli, da una realtà politica, sociale, culturale ed economica che nella propria area geografica era egemone. L’essere New York diventata "la prima Città del mondo” ha radicalmente modificato anche loro e i loro discendenti. Sono cambiate le due polarità, la terra lontana, vista da chi arriva come periferica è diventata primaria, e quella di provenienza pur rimanendo nei ricordi e in alcune ritualità si è affievolita. Questo ha inserito gli ormai ex-emigrati in una nuova dimenzione aggregante. Che ha i suoi momenti difficili di cui gli italo-americani devono farsi carico come tutti gli altri americani.
Cosa intendi per "momenti difficili"?
«La prendo alla lontana. Partiamo da Colombo. In alcuni ambienti politici e accademici la sua figura è oggetto di rilettura. C’è chi vede Colombo come "occupante" o come avanguardia degli occupanti. Per salvarlo da questa rilettura storica al negativo, bisogna recuperare il contributo di universalismo che ha dato agli americani. Occorre avere il coraggio di dire che il "recupero" di Colombo si fa se lo si legge alla rovescia: arrivando in America lui non ha portato l’Europa in America, bensì ha portato l’America nel mondo. E, se vogliamo, ha consentito agli americani di diventare "domini" del mondo. Con tutti i problemi, i sospetti e le difficoltà nelle relazioni internazionali che questa dominanza può comportare. E di cui gli americo-italiani si devono far carico per la loro parte. Perché l’America che va nel mondo ci va por tando vari valori, tra cui c’è anche quello della italicità. Per dirne una: tra i principali estimatori e fruitori - e, quindi – divulgatori del Made in Italy, dell’amore per l’arte, per il gusto e per il sentire italico, ci sono proprio gli americani. E’ una rilettura, mi rendo conto, che in un primo momento può sembrare ostica da assorbire. Ma che si comprende meglio partendo dal cosmopolitismo e dalla "pluriappartenenza". L’America, anzi: le Americhe, sono un classico esempio di pluriappartenza e di cosmopolitismo. E’ qui, se vogliamo usare un altro termine, che si è realizzato il melting pot. E Colombo, per primo, era un "pluriappartenente": era un italiano, anzi prima ancora un genovese, che pur di realizzare il proprio convincimento si era messo sotto la bandiera spagnola. Ecco perché sono convinto che, per salvare Colombo da una rilettura storica che lo vedrebbe impopolare in quanto "occupante" o avanguardia degli occupanti, bisogna recuperare il contributo di universalismo che Colombo ha dato agli americani ».
Colombo, quindi, resta un simbolo. E, con le dovute riletture, può esserlo anche per gli italici.
«Si tratta, come dicevo, di capire il nuovo senso da dargli. E da dare ai festeggiamenti in suo nome. Qual è la vocazione identitaria di chi fa e partecipa al Columbus Day? Coloro che sfilano lungo la Quinta Avenue lo fanno per ricordare l’Italia, visto tra l’altro che a questo tipo di manifestazioni vanno anche i politici italiani? Questa era la vecchia versione o lettura del Columbus Day. Oppure coloro che sfilano sono un pezzo di America che festeggia il suo modo attivo di "essere" in America? O, invece, e questa è la novità che si spiega con la localizzazione - la lettura locale della globalizzazione - coloro che sfilano sono lì per testimoniare l’incontro di americanità e di italianità che ha, appunto, contribuito a produrre l’italicità? In questo senso Colombo non è più impopolare: perché da rappresentante di una cultura occidentale intesa come oppressiva diventa profeta di globalizzazione. Nel Columbus Day credo, quindi, che non ci celebri più soltanto quello che gli italiani hanno fatto per l’America ma, piuttosto, quello che gli italiani assieme agli altri americani hanno fatto per il mondo. In questo caso penso che gli italiani abbiano ancora molto da dare agli americani per "animare" il mondo. Hanno l’italicità, cioè il "sentire" italico che quando è innervato nei muscoli potenti di New York e dell’America può fare quello che, a suo tempo, Colombo fece con i muscoli della Spagna. Il Columbus Day, insomma, e tutte le altre manifestazioni del genere sono eventi ancora "local", fermi a cento anni fa quando l’America per gli italiani era Ellis Island? Oppure sono maturi per diventare "global"? ».
pubblicato su Oggi7/ America Oggi il 4 ottobre 2009
Intervista in versione pdf
Archivio degli articoli della rubrica Globo Italico
Comunità Italofona
Il 24 settembre a Torino, all'interno del Prix Italia, Globus et Locus ha partecipato all’assemblea annuale della Comunità radiotelevisiva italofona, una delle più interessanti aggregazioni mediatiche di matrice italica.
La Comunità radiotelevisiva italofona, presieduta da Remigio Ratti, ha portato all’attenzione dei suoi membri fondatori, media quali la Rai, la Rsi (Radiotv della Svizzera italiana), la RTv San Marino, Radio Vaticana e Capodistria, e degli enti associati ed amici (tra i quali Globus et Locus e Accademia della Crusca) gli importanti raggiungimenti dell'ultimo anno. Presentato dal prof. Carlo Ossola, ha fatto il suo ingresso nella CRI l’Istituto di studi italiani dell’ Università della svizzera italiana a Lugano. Sono stati inoltre presentati gli atti del convegno "L’italiano di fronte. Italicità e media nei Paesi dell’Europa sudorientale”, tenutosi a Tirana nell’ottobre del 2008 e promosso dalla Radiotelevisione albanese.

Aderendo di fatto all’idea della condivisione culturale di stampo italico, la Rtv albanese ha in quell’occasione ribadito l’importanza del "collante" italico nel riassestamento dello scacchiere sud orientale europeo, sempre più aperto alla cultura e alla lingua italiana.
Un approccio glocale (globale e insieme locale) caratterizza l’area favorendo rapporti pacifici e di scambio mediatico tra le varie nazioni, etnie e i media che li rappresentano. Un occhio di riguardo all’appartenenza italica – seconda a quella nazionale ma non meno significativa – è, in questo contesto, di grande aiuto e significato.
Si è pure sottolineato che le nuove adesioni (radio Romania e le croate Radio Fiume e Radio Pola, e SAT 2000) alla Comunità radiotelevisiva italofona sono di buon auspicio per un progressivo allargamento dell’italofonia e dell’italicità nella regione. Il presidente della Comunità radiotelevisiva italofona ha infine rimarcato il ruolo del promotore dell’italicità, Piero Bassetti, presidente di Globus et Locus, che in qualità di amico della Comunità ha aiutato l’associazione nello sviluppo di un’idea condivisa italica alla base della strategia mediatica comune.
L’idea di un’italicità come appartenenza ulteriore e sovranazionale è ormai condivisa dai membri della Comunità e può essere uno dei canoni di interpretazione.
Sito web: www.comunitaitalofona.org
Impresa & Stato
"Impresa & Stato", la storica rivista della Camera di Commercio di Milano , a partire dal mese di settembre si rinnova nel formato e nei contenuti.
La rivista prosegue il suo ruolo ventennale di catalizzatore dello studio e del dibattito sul rapporto tra impresa e
nuova statualità, innovando nell'ultimo numero -giugno/settembre - il suo formato e i suoi contenuti.
Il periodico continua ad essere sede di un dibattito aperto e costruttivo, cui contribuiscono personalità di rilievo del panorama economico, politico, culturale, non solo milanese, ma italiano e globale. Diviene maggiore, a partire dal numero di giugno/settembre, lo spazio dedicato all’approfondimento dell’attualità e si modifica la veste grafica nonché la periodicità della rivista, adesso quadrimestrale.
A conferma dell’ispirazione innovativa della rivista e della sua capacità di affrontare tematiche attuali con un approccio glocale, questo nuovo ciclo della rivista “Impresa e Stato” si apre con un numero di approfondimento sulle risposte alla crisi elaborate dalle molte reti dell’economia milanese, fatta di imprese, ma anche di enti, consorzi, cooperative, non-profit, fondazioni.
L’interesse e la rilevanza dei temi trattati, nonché la capacità di rinnovarsi, incamerando le conoscenze e l’esperienza della Camera di commercio milanese, rendono "Impresa & Stato" un luogo di elaborazione e condivisione di proposte innovative per far fronte alle sfide della modernità.
La recensione del mese
"Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista", Mauro Magatti, Feltrinelli, 2009
Con l’incisiva definizione "Le illusioni del capitalismo tecno - nichilista" il sociologo Mauro Magatti, con cui Globus et
Locus collabora da tempo, sottotitola emblematicamente il suo ultimo importante saggio “Libertà immaginaria”. Questo concetto, che nelle 400 pagine del libro diventa persino una sigla, il CTN, è, secondo Magatti, l’orizzonte socio-politico attuale, con le cui libertà ed i cui vincoli dobbiamo confrontarci quotidianamente. Questo orizzonte sociale è ben presente nella vita di tutti i giorni, ma anche nelle strategie palesi e celate delle società evolute che si sono di fatto impadronite dei destini del mondo per mezzo del processo di globalizzazione. L’orizzonte attuale è visto da Magatti come "liberatore" di alcune energie dell’umanità, ma anche e soprattutto come pericoloso limite allo sviluppo dell’umanità stessa (nel senso del sentire umano verso il prossimo).
Il materialismo, chi era costui? Magatti ce lo spiega con dovizia di particolari, rifacendosi alla grande discussione socio-filosofica della seconda metà del ventesimo secolo e dei primi anni del ventunesimo. In un ambito prevalentemente materialista, le grandi libertà individuali, figlie della modernità, rischiano la ridondanza trasformandosi in libertà per lo più immaginarie. "Sperimentandone tutta l’ebbrezza" scrive Magatti "l’individuo contemporaneo ama fantasticare circa la propria libertà, rifuggendo il confronto con la realtà così come esiste, considerata nient’altro che l’espressione di una qualche forma nascosta di autorità che, per principio, va rifiutata. Inseguendo il suo desiderio per essere completamente libero, l’individuo contemporaneo si scopre meramente adattivo, esposto ai rischi globali che possono comprometterne la vita e ai mutamenti radicali della propria natura stessa, senza avere nemmeno la capacità di poterne discutere (…). Mentre parla tutti i giorni del valore della libertà, l’individuo 'libero e sovrano' segue spasmodicamente i gesti che il campo socio-storico gli propone: fare soldi, consumare e godere. Ritenuto libero di dare alla sua vita il senso che vuole, egli dà, nella maggior parte dei casi, solo il senso in corso, ovvero il non senso dell’aumento indefinito degli stimoli sensoriali, degli scopi disponibili, della performance”.
Facendo propria la lezione di René Girard, secondo cui l’umanità è in preda a un fortissimo desiderio mimetico imitativo e rivalitario reciproco, l’autore cerca una soluzione a questa sorta di impasse socio-esistenziale, che stimola la competizione sociale riducendo se non annullando gli spazi per la solidarietà, andando alla ricerca di una nuova responsabilità civile. In un’epoca dominata dal tecnicismo funzionale e dal nichilismo valoriale "il nucleo interiore dell’umano può tornare a essere visibile, producendo un bene che non si riesce a compensare e ricostituendo ciò che invece fatica a stare insieme. Per tale ragione – nel momento in cui esso dà vita a un resto indiviso – il perdono è oggi il vero confine invalicabile del legame sociale. Proprio per questo, senza perdono non si può vivere questo tempo". Il perdono, e quindi la condivisione di un destino comune, una volontà di riappropriazione delle sorti dell’altro, è l’orizzonte a cui guarda Magatti come a un antidoto alla spersonalizzazione imperante.
Al di là e contro ogni nichilismo che produce le "personalità modali", personalità che prendono la forma richiesta dalla situazione in atto e rinunciano a sviluppare qualsivoglia coerenza, rispetto e persino significanza umana, il sociologo milanese dimostra, con indiscutibile abilità, che vi è ancora una possibilità tutta "umana" di imbastire rapporti sociali responsabili e libertà collettive e individuali solidali.
Recensione a cura di S. Roic