Globus et Locus Newsletter n. 7 2006

Editoriale

Il ruolo della business community italiana nel mondo e il grande mercato potenziale costituito dagli “italici” sono stati al centro del dibattito durante la XV Convention Mondiale delle Camere di Commercio italiane all’estero (CCIE) che si è svolta a Lecco dal 21 al 27 ottobre 2006. Quella delle 73 Camere italiane nel mondo è una rete sempre più rilevante e interconnessa, come è stato dimostrato dal successo della Convention con oltre 500 partecipanti ai dibattiti pubblici e 3000 incontri personalizzati con i delegati delle CCIE.

L’italicità (l’appartenenza a un sistema comune di valori e interessi) in quella sede è stata riconosciuta da più parti come uno degli elementi aggreganti e connettivi della rete. In occasione della Convention, infatti, Globus et Locus ha presentato con successo il pamphlet “Il percorso dell’italicità” edito da G. Casagrande e consultabile on line sul sito dell’Associazione.  

Gli  “italici” (non solo gli italiani all’estero e i loro discendenti, ma anche gli amanti dell’italian way of life, e cioè gli italofili) rappresentano anche una “comunità di consumo” (di beni e servizi, beni e servizi, espressione dell’italian way of life) che “si alimenta” dall’immaginario collegato a questo modo di vita e forma un mercato potenziale di ben 250 milioni di persone nel mondo.

Se la rete delle Camere di Commercio italiane all’estero (rappresentate da Assocamerestero) è, in altre parole, una “comunità dell’offerta” (le imprese che producono e vendono nel mondo), è chiaro che le Camere di Commercio hanno un oggettivo interesse a favorire, da un lato, l’ulteriore promozione dell'italicità in quanto potenziale comunità di consumo e, dall’altro, l’incontro fra questa comunità e la “comunità dell’offerta”.

La Convention di Assocamerestero ha rappresentato una grande occasione per prendere consapevolezza di un mercato globale costituito dagli italici nel mondo e far sì che il potenziale di acquisto degli italici e il potenziale di offerta della business community si incontrino efficacemente per realizzare una maggiore e più fruttuosa sinergia.  

 Assocamerestero e Globus et Locus hanno dunque l’interesse reciproco a collaborare ad un progetto comune in grado di avvicinare i loro rispettivi “mondi di riferimento”. Si tratta in sostanza per entrambi di una grande occasione che non va perduta.

  

Per un'identità cosmopolita

Abbiamo posto alcune domande a Riccardo Giumelli, ricercatore, autore della tesi di dottorato “Sguardo Italico e Cosmopolitismo. Nuovi orizzonti a partire dal modello Italo-Francese”, presso la Facoltà di Sociologia della Comunicazione dell’Università di Firenze.

Dott. Giumelli, che definizione darebbe dell'italicità alla luce della sua ricerca?

L’italicità è ripensare l’identità italiana - intesa non come l’identità derivante dal passaporto, ma dall’appartenenza alla civilizzazione italica - in termini cosmopoliti, all’interno di un processo di globalizzazione che è in atto indipendentemente e dipendentemente da noi. Si tratta di ricostruire le variabili spazio/tempo dell’identità italiana, alla luce soprattutto degli studi effettuati da Giovanni Bechelloni. Spazio nel senso di comprendere tutti coloro che al di fuori dei confini nazionali condividono uno stile di vita, una cultura di appartenenza, un legame profondo con la nostra identità italica: cioè coloro che sono emigrati, le generazioni successive (gli oriundi); tutti coloro che seppure di altre culture hanno rapporti continui con la nostra perché la studiano, perché vanno spesso in vacanza in Italia, perché ne amano la cucina, perché hanno molti amici italiani, ecc..; ma anche i nuovi immigrati in Italia che lì vivono e che spesso tornano al loro paese portando con sé i cambiamenti appresi durante il soggiorno nella penisola.
Si tratta anche di ripensare la variabile tempo, nel senso di un recupero della nostra lunga memoria storica che non è solo quella dei vincitori, che di volta in volta si sono susseguiti e che hanno scritto la storia dell’Italia, ma è quella di un continuo processo di incontro/scontro fra culture diverse, indigene o meno, nella penisola italica. Una memoria cosmopolita che è sembrata scomparire dall’ideologica identità nazionale italiana nel suo senso moderno: dove gli italiani dovevano essere fatti, quando invece esistevano già da molto tempo ma non erano mai stati capiti.

Secondo lei, l'italicità ha un futuro nel senso che si compatterà e si riconoscerà in un tempo relativamente breve oppure è destinata a rimanere un legame generico e labile?

Sì, l’italicità ha un senso profondo ed attuale, ma il lavoro di presa di coscienza mi sembra molto lungo e difficile. Innanzitutto perché gli ostacoli non si trovano solo nella vulgata popolare dove gli stereotipi sull’identità nazionale nel bene e nel male continuano ad esistere, ma anche e soprattutto in una certa élite accademica, politica e giornalistica, dove il termine italico mi pare evochi esclusivamente echi lontani ed antichi.
L’errore più grande, tuttavia, sarebbe quello di considerare defunto l’impianto nazionale, che malgrado le sue difficoltà potrà rivelarsi utile e determinante nei processi di globalizzazione, come crocevia tra globale e locale.
Urge un’operazione di presa di coscienza, malgrado certe idee possano mostrarsi avanguardiste. E’ necessario attivarsi con una buona strategia comunicativa, con energie e risorse, con l’entusiasmo di chi navigando a vista sa che questa è la giusta via da intraprendere, o almeno una migliore delle altre. Un grave errore sarebbe quello di non accettare la sfida, di farsi prendere da derive nichiliste ed abbandonare lo sforzo per cercare riparo su rotte più sicure ma che potrebbero nel tempo rivelarsi suicide.   
Credo, quindi, che l’italicità potrà compattarsi, sempre che siano investite risorse sia materiali che immateriali, ma in tempi piuttosto lunghi. Non sono in grado di dire se ci saranno accelerazioni, rallentamenti, dipende dalla forza di attivarsi, di aumentare il consenso e l’approvazione sia nel settore elitario che in quello più popolare.

Per leggere l'intervista nella versione integrale:

Intervista a Riccardo Giumelli (versione integrale)

    

La recensione del mese

Jacques Attali, "L'uomo nomade", Spirali, 2006

Il libro di Attali, nonostante alcune contraddizioni e manchevolezze, può essere utile in un dibattito sulle differenze che ormai intercorrono fra le società a impronta nazionale (che si basano sulla territorialità) e quelle glocali, sempre più caratterizzate da fenomeni di mobilità.

La ricostruzione storica di Jacques Attali – intellettuale francese già consigliere economico del presidente Mitterrand – ripercorre, attraverso i millenni, l’antica ma in qualche misura ancora attuale dialettica fra nomadi e stanziali. “La stanzialità – osserva Attali – non è che una breve parentesi nella storia umana. Durante l’essenziale della sua avventura, l’uomo è stato plasmato dal nomadismo e sta ridiventando viaggiatore”.

Fra convivenza e, più spesso, conflitto,  i rapporti fra nomadi e stanziali hanno segnato l’intera storia umana. Attali ricostruisce il “tempo lungo” di questi processi, rintraccia i “fili” del nomadismo nelle diverse aree del mondo. Culture, forme di vita sociale, immaginari vengono delineati in un grande “affresco”, che tenta di restituire a noi, che viviamo nell’età della globalizzazione (o della mondializzazione, come preferiscono i francesi), il senso di un’esperienza per molti versi “arcaica” ma per altri, in nuove forme, ancora viva.

L’uomo, dice Attali “sta ridiventando viaggiatore…Oggi più di 500 milioni di persone possono essere considerate nomadi del lavoro o della politica: gli immigrati, i rifugiati, gli espatriati, i senza fissa dimora e i migranti di ogni sorta… Più di un miliardo di persone viaggia ogni anno per piacere o per obbligo…Ogni anno, 10 milioni di persone espatriano: questo, da qui a cinquant’anni, potrà indurre più di 1 miliardo di individui a vivere fuori del paese natale”. Poi ci sono – vale la pena ricordarlo -  i “nomadi virtuali”, quelli che navigano nell’”oceano” della rete, che disegnano viaggi senza spazio, che costruiscono reti transnazionali e nuove “communities without propinquity”.

In questo quadro, la tesi di Attali è che sia in corso un nuovo scontro fra nomadismo e sedentarietà. L’ultimo grande “impero” stanziale – gli Stati Uniti, superpotenza ma in declino – si trova di fronte gli “innumerevoli nomadi della miseria”, gli “infranomadi”, che “sono e saranno i motori principali della storia, dell’economia e della  politica”. Questa prospettiva, secondo Attali, offre un senso anche agli eventi drammatici dell’11 settembre: “Con l’11 settembre 2001 sono cominciate nuove guerre che contrappongono ribelli nomadi all’attuale impero. Queste guerre mescoleranno alle tecnologie più avanzate gli eterni principi della guerra nomade (far paura per far fuggire)”. Il futuro, secondo Attali, sarà “un terribile caos da cui nascerà una nuova civiltà”, insieme nomade e stanziale. “La mondializzazione democratica – così la chiama Attali – passerà attraverso la difficile messa in pratica delle virtù del nomade…e delle virtù dello stanziale…Verrà allora a delinearsi, al di là di immensi disordini, qualcosa come la promessa di un meticciato planetario”.

Che cosa renderà possibile questo passaggio dal disordine ad una “mondializzazione democratica” segnata dall’ibridazione e dal meticciato? Quali attori, quali istituzioni, quali sistemi di governance e di governo garantiranno il nuovo ordine, le nuove modalità di convivenza, la possibilità di una terra che kantianamente sia “ospitale per tutti i viandanti della vita”? Di questo Attali non parla. Nel suo “affresco”, scritto in un linguaggio brillante e suggestivo (che fa venire in mente la tradizione storiografica francese delle Annales), c’è forse la “poesia”, manca però la “prosa” della politica, delle istituzioni, del progetto. Alla fine si è delusi, e si aspetta, forse inutilmente, un altro libro.

Recensione a cura di Giampiero Bordino

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