Globus et Locus newsletter n. 4 2009

Presentazione a Torino del libro per i 10 anni di Globus et Locus

"Globus et Locus. Dieci Anni di Idee e Pratiche. 1998 - 2008"

mercoledì 20 maggio 2009, ore 17.00

Centro Congressi Torino Incontra – Sala Einaudi

In occasione dei dieci anni di attività, Globus et Locus desidera condividere il lavoro compiuto insieme alla Camera di Commercio di Torino, alla Compagnia di San Paolo, alla Fondazione CRT e alla Regione Piemonte in tema di glocalizzazione, aprendo lo sguardo alle nuove sfide che il mondo glocal è chiamato ad affrontare.

Alla luce delle riflessioni raccolte nella pubblicazione “Globus et Locus. Dieci anni di idee e pratiche. 1998-2008”(Giampiero Casagrande editore, Milano-Lugano) sui temi delle nuove istituzioni e dei processi di governance globale, sui popoli transnazionali che abitano questo mondo e sulla cultura glocal che permea la società, l’incontro si propone di stimolare una maggior consapevolezza del ruolo dei nuovi soggetti del mondo glocal, adottando una prospettiva funzionale e regionalista.

PROGRAMMA

Saluto di apertura:   Guido Bolatto,  Segretario Generale Camera di Commercio di Torino  

Saluti istituzionali:  

Mercedes Bresso,  Presidente Regione Piemonte
Angelo Benessia,  Presidente Compagnia di San Paolo
Andrea Comba,  Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Torino 
      

Interventi di:

Mario Deaglio   -   “Glocalismo”   

Angelo Pichierri   -   “Nuove istituzioni”  e   “Città”

Francois Trémeaud    -   “Global governance”

Maddalena Tirabassi    -   “Italici”

Conclusioni diPiero Bassetti, Presidente Globus et Locus
 

Invito Presentazione Torino 20 maggio 2009
 

Provincia di Piacenza: un bilancio glocal

L’ 8 aprile 2009, Globus et Locus ha partecipato alla presentazione del bilancio di mandato 2004-2009 dell'Amministrazione provinciale di Piacenza (socio di Globus et Locus).

La presentazione è stata la tappa conclusiva del ciclo di incontri con cui il Presidente Gianluigi Boiardi ha presentato il lavoro svolto nei cinque anni alla cittadinanza e ai rappresentanti di istituzioni, associazioni, organizzazioni sindacali, rappresentanti di categorie economiche e portatori d'interesse piacentini.

Nella sala del Consiglio della Provincia si sono avvicendati gli interventi del Presidente Boiardi, del sindaco di Piacenza, Roberto Reggi, di Daniela Gasparini, ex assessore provinciale al Piano strategico dell’area metropolitana di Milano attualmente alla guida di Milano Metropoli nel traghettare il territorio della “città infinita” verso l’Expo 2015, e del Presidente di “Globus et Locus”, Piero Bassetti.

Il Presidente Bassettiha riaffermato l'importante e nuovo ruolo che dovranno necessariamente ricoprire le Province. Ha inoltre evidenziato la sfida che questa amministrazione ha iniziato ad affrontare per agire bene non solo sul piano locale ma anche in un’ottica glocal, collegando Piacenza con reti di funzioni più ampie che ne trascendono il territorio (nel campo della logistica, nella valorizzazione della rete fluviale con le province del Po, attraverso le connessioni con la rete degli emiliano-romagnoli nel mondo, ecc.).

Il Bilancio di mandato della Provincia di Piacenza è consultabile al link sottostante.
 http://www.provincia.pc.it/speciali/bilancio/


Milano globale, capitale del design

 Milano è considerata - e non a torto -  la capitale del design. Il successo dell’ultimo Salone del mobile (22-27 aprile 2009) ne è un’evidente dimostrazione.

Tuttavia tale successo non è riconducibile a Milano in quanto città italiana o Milano in quanto espressione del made in Italy, quanto piuttosto alla sua natura di glocal city, nodo di reti e funzioni che si intrecciano a livello globale.

La maggior parte dei designer e creativi che lavorano nel settore, infatti, sono stranieri. I grandi progettisti del design italiano di una volta (Magistretti, Castiglioni, Ponti, …) erano un gruppo ristretto, omogeneo per formazione ed estrazione sociale; oggi le idee vengono da creativi di tutto il mondo con retroterra e gusti diversificati. Questo non significa che il design italiano sia in declino ma che anzi si sta arricchendo in un’ottica glocal grazie al lavoro di creativi “italici”.

L’Italia e Milano restano infatti il centro e fulcro della produzione, perché si riconosce a Milano, e all’area padana, un particolare genius loci, che come è stato ben sintetizzato da Ron Arad, consiste nella straordinaria capacità di tradurre idee in cose (prodotti).

Il Salone del Mobile ha inoltre una particolarità rispetto alle altre esposizioni di respiro internazionale che si svolgono nel mondo (Colonia, Canton, Shangai, Valencia...), a conferma del legame indissolubile con la città. Nella settimana del Salone del mobile, la città diventa un tutt’uno col design, con un forte impatto sulla vita sociale e culturale. Un immenso laboratorio e fucina di idee, tra gli eventi “Fuori salone” in centro città, le esposizioni alternative di via Tortona, gli eventi culturali e le installazioni alla Triennale e in altri spazi del tessuto urbano.

Nella ricerca “Milano globale e le sue porte (Globus et Locus e Camera di Commercio di Milano, 2007), il saggio di Mino Politi sulla “porta del design” mette in evidenza come Milano rappresenti la maggiore vetrina del design in campo mondiale e quindi in grado di attrarre operatori e visitatori da tutto il mondo. Un confronto con due delle principali capitali del mondo, New York e Parigi, permette di comprendere la peculiarità, la forte specializzazione milanese.

I dati messi in evidenza nel saggio di Politi mostrano un aspetto poco conosciuto di Milano, ovvero quello di “mostra permanente del design”, fenomeno spontaneo, probabilmente non consapevole del proprio potenziale promozionale.

Il rapporto finale della Ricerca "Milano Globale e le sue porte" è consultabile al seguente link: http://www.mi.camcom.it/show.jsp?page=703903

 

Intervista a Elvira Dones

Scrittrice di origine albanese, sceneggiatrice e autrice di documentari televisivi. Divide la sua attività tra la Svizzera e gli Stati Uniti, dove attualmente risiede.

La sua esperienza personale, ma anche quella della scrittrice, ha radici albanesi e fioriture svizzere, italiane e americane. Nel mondo, globale e assieme locale, ci sono sempre più persone che vivono concretamente delle pluri-appartenenze. Lei considera tutte quante sue queste appartenenze diverse?

Ritengo di possedere qualcosa da tutto ciò che amo: un piccolo qualcosa nel caso di un viaggio breve, un’isoletta più grande laddove ho posato l’esistenza per scelta e non per caso. Ho provato ad amare luoghi o paesi o persone sotto la spinta della sola curiosità, ma non è stato abbastanza. La curiosità intellettuale o letteraria deve avere una componente viscerale, altrimenti dentro di me resta il gelo, dal quale sfuggo. E’ come amare un frigorifero: non lo posso amare, nonostante ne riconosca l’utilità. Quindi, andando per ordine: l’Albania non la si può non amare. Non perché lì ci sono nata, ne parlo la lingua, ho parte della famiglia e tanti amici. Non provo il bisogno di identificarmi con un paese per senso del dovere; mi sono sempre trovata d’accordo con Cioran quando dice “Non ho nazionalità, e questo è lo status migliore per un intellettuale.” Amo l’Albania perché intensa, ruvida, sanguigna, delicata, pasticciona e acuta al contempo. E poi la amo perché piccola, una quantité négligeable nei grandi giochi geopolitici. L’Albania è una terra dove troppi stivali militari sono passati a calpestare e a opprimere, dove troppi stranieri sono sbarcati a calar lezioni. E siccome considero l’arroganza una forma spinta di cretinaggine, io mi incaponisco ad amare ancor di più l’Albania.
Per farla breve: sì, adoro il mio status di eterna viandante, la mia babele linguistica, le scelte che mi tocca prendere davanti a tutti i bivi di fronte ai quali vado a mettermi.
Dopo sedici anni di vita e lavoro in Svizzera, mi considero anche elvetica. Sono in contatto giornaliero con il Ticino, soprattutto, e ci ritorno ogni volta che posso.
Giusto per aggiungere un pizzico di pepe: considero la Svizzera la mia terra, ma non so se questo mio sentimento sia corrisposto. Per la stampa, anni fa ero la scrittrice albanese d’origine e svizzera di adozione. Oggi, da quando sono nuovamente emigrata, sono “solo” una scrittrice albanese che scrive in italiano. Come se quei miei sedici anni trascorsi in terra elvetica non fossero più con me, dentro di me. Come se per essere svizzeri – almeno un po’ – fosse necessario abitare sempre all’ombra del Cervino.
 
L’America mi appartiene, lo dico senza riserve, è altamente imperfetta e con una vitalità straordinaria. Il luogo ideale per un narratore.
Se dovessi rifare la mia vita, la rifarei esattamente allo stesso modo. Il viaggio al centro di tutto. Il resto attorno, in precario equilibrio, sì, eppure straordinariamente bello. 

Come mai a un certo punto della sua produzione letteraria ha scelto l’italiano come lingua d’espressione? Si definirebbe una scrittrice italica, nel senso che partecipa della vasta esperienza della lingua e della cultura nata e affermatasi in Italia e che poi si è espansa in tutto il mondo? Come definirebbe la sua identità letteraria?

Ho lasciato l’Albania per la Svizzera italiana. L’italiano è stato per anni la lingua di casa. Mia figlia è nata all’ospedale “Beata Vergine” di Mendrisio. Con mio figlio – nato in Albania - parliamo da diciotto anni solo in italiano. Ho vissuto in italiano, mi sono crogiolata nella lingua di Dante, da rifugiata in Svizzera ho pianto in italiano, ho sofferto in un italiano sgrammaticato, che ho poi cercato di affinare col tempo. Da qui, il passaggio alla scrittura direttamente in italiano è stato graduale, ponderato ma con naturalezza.
Mi considero una scrittrice italica e albanese al contempo. Non riesco a fare una scelta drastica, definitiva, a scapito di una delle due lingue. Scrivo in italiano. Il nuovo romanzo, non ancora pubblicato, l’ho scritto in italiano, e così sarà pure per il prossimo. Ma ho tra le mani alcuni racconti in albanese che raccoglierò in un volume, non appena saranno pronti...
E se per scrittrice italica intendiamo questo, e cioè scrivere in italiano e portare dentro di me come un gioiello prezioso l’italianità, la sua cultura, la sua musica, un certo savoir faire e la fantasia creativa all’italiana, allora sì, è ciò che mi sento di essere. Il lavoro mi porta spesso in Italia. Sono a casa a Roma, a Milano, a Torino.
La mia identità letteraria credo sia un métissage, ed è un métissage linguistico, culturale, geografico. Sono il classico caso di scrittore transnazionale. Attingo alle storie della varia umanità che mi circonda e che vado assiduamente a cercare, ma conservo le radici nei Balcani e nel Mediterraneo.
C’è questa piazza enorme, chiamata Mediterraneo. Offre se stessa. E’ lì, in tutto il suo confuso e spesso irrazionale splendore. E’ lì per farci scambiare pensieri, a volte insulti e risate e guerre; a sbirciare nelle similitudini e negli opposti, a osservare le radici intricate. Già “masticare” la storia del grande bacino mediterraneo è un’impresa titanica. Spesso tentiamo di conoscerci ma lo facciamo con una certa pigrizia, quasi svogliati. Oppure usiamo la curiosità in maniera ottusa, senza vera apertura mentale, e questo porta a suggellare, a rafforzare i pregiudizi piuttosto che la conoscenza.
La letteratura italica e quella mediterranea hanno molti punti in comune, ovvio, ma non sono la stessa cosa. Il mediterraneo è più largo dell’italicità, del mondo italofono, o come lo vogliamo denominare. Di conseguenza le sue lettere, le sue arti sono simili e diverse, complementari ma non gemelle...
Cosa c’è di italico nei miei scritti preferirei che lo analizzasse chi si occupa di queste cose. Quel che so è che sono una scrittrice che scrive in questa lingua, che legge costantemente letteratura italiana, anche per tenersi aggiornata su ciò che succede in campo letterario. So che non ho nessuna intenzione di abbandonare il mio italiano, anzi. Ma allo stesso tempo mi vedo, ancora una volta, non “incasellabile” in un solo piccolo compartimento. Sono una scrittrice mediterranea. E italica. E albanese. E un po’ svizzera. E abito in America. 


Perché, secondo lei, l’Italia è più spesso vista come una sorta di ricordo nostalgico piuttosto che come un modello a cui tendere? Piuttosto una mancanza da ricordare che una meta da raggiungere?

Forse perché fuori dall’Italia la sua cultura, il suo grande patrimonio, la sua indiscutibile ricchezza storica vengono oggi spesso accostati ai troppi governi, più o meno inetti, che vanno e vengono, alla mancanza di una politica seria, solida e ben mirata?
Si può condividere oppure contestare la percezione di un’Italia come il paese che fu, bello solo per il suo straordinario patrimonio storico-archeologico-artistico-culturale (e gastronomico). Ma certo è che l’Italia di oggi ha assolutamente bisogno di un serio lavoro di rivalutazione e di miglior gestione delle sue enormi risorse. Tocca all’Italia e alle sue istituzioni utilizzare con serietà e con lungimiranza ciò che l’Italia ha da offrire a se stessa, all’Europa e al mondo. Le lettere, la scienza e l’arte non possono funzionare a singhiozzo e fermarsi ogni volta che per motivi futili e assurdi cade un governo. Prima che un paese venga preso sul serio dagli altri, bisogna che impari a prendere sul serio se stesso.

a cura di Sergio Roic

Sito web ufficiale: www.elviradones.com

 

La recensione del mese

"La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà", Tzvetan Todorov, Garzanti, 2009

Una delle grandi capacità del filosofo/sociologo franco-bulgaro Tzvetan Todorov, non così facilmente diffusa nell’élite intellettuale contemporanea, è quella di scrivere e discutere di temi complessi in maniera semplice. Non si tratta di affermare che l’approccio dell’autore sia il “semplicismo”, inteso come semplificazione, riduzionismo o peggio ancora banalizzazione. Piuttosto piace l’idea (in particolar modo a chi scrive) che si fugga dai pretesti della complessità sociale post-moderna, rea di rendere il dibattito sui temi caldi della globalizzazione, del cosmopolitismo, dei nuovi conflitti, delle crisi economiche e finanziarie, proprietà esclusiva di una schiera ristretta di intellettuali iper specializzati e conoscitori del sapere umano, di politici potenti inarrivabili e di manager globali intoccabili.

Todorov invece scrive a partire dall’assunto che il mondo appartiene all’intero genere umano che lo abita, e che quindi responsabile delle paurose conseguenze che oggi sarebbe in grado di provocare per la Terra e soprattutto per se stesso. Egli ritiene determinante rendere il suo pensiero accessibile a tutti. Ecco perché consiglierei questa lettura a tanti, o comunque almeno a coloro che necessitano di capire l’odierno spirito del tempo. Infatti la lettura appare al tempo stesso:  agevole ma profonda, critica ma sensibile, appassionata ma distaccata, autorevole ma divulgativa. Le parole e le pagine del libro in scivolano velocemente tra le mani ma al tempo stesso scuotono e pervadono le più profonde riflessioni.

Le parole chiave di tutto il testo girano attorno a quelle di:identità, cultura, civiltà e barbarie, comunicazione, globale/locale, Europa. Naturalmente lascio al lettore il compito di comprenderne meglio i significati e l’articolazione che ne da’ il pensiero di Todorov. Tuttavia non credo di sbagliarmi definendolo un neo-illuminista, fautore di un pensiero critico cosmopolita che poggia sui Lumi ma dei quali si prende atto anche delle devianze (ad es. la sacralizzazione e l’ “altarizzazione” della Ragione). Qui il solo appunto alle riflessioni riportante: perché si mettono nell’oblio gli apporti universali e immensi del Rinascimento italico e dell’urbanizzazione? Perché ci dice che l’uomo viene messo al centro del mondo solo nel XVIII secolo? Si dimentica forse il pensiero umanista da Pico della Mirandola a Machiavelli a Guicciardini, ecc…?

Lasciando gli aspetti delle criticità, il discorso parte dalle tesi del politologo americano S. Huntington, recentemente scomparso, sul tema dello “Scontro delle Civiltà”, che è stato anche titolo del suo più famoso libro (1994). Si tenta quindi di trarne una riflessione attenta e comunque ormai a distanza di tempo dove Todorov riconosce che l’argomento è centrale, tuttavia le argomentazioni sono fortemente criticabili e faziose. Il mondo di oggi è caratterizzato dalle pluriappartenenze, dal formarsi dinamico e continuo di nuove e vecchie appartenenze culturali, dalla mobilità volontaria o coatta, dalla finanza globale, da nuovi processi di aggregazione, dalle nuove tecnologie della comunicazione. In tutto questo l’intellettuale non vede di per sé motivo di conflitti violenti, anzi forse la capacità di risolverli. I conflitti piuttosto sono il risultato delle azioni di istituzioni politiche, degli Stati-Nazioni, di apparati politico-sociali se non militari, di etnocentrismi animati da bieche passioni umane, da invidie e risentimento verso il potere e la ricchezza. Attraverso esempi e casi l’autore suffraga l’idea che dietro il paravento dello scontro di civiltà o di religione si vogliono far emergere nuove dinamiche di potere.

Concludo con il paradigma della civiltà presentato e ripetuto nel testo, che tutti dovremmo riconoscere e praticare, oggi “la pluralità delle culture non impedisce affatto l’unità dell’umanità, tanto meno il giudizio che stabilisce la realtà degli atti di barbarie e dei gesti di civiltà. Nessuna cultura è di per sé barbara, nessun popolo è definitivamente civilizzato: tutti possono passare da una condizione all’altra. E’ una caratteristica della specie umana”.

Riccardo Giumelli

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