Globus et Locus newsletter n. 2 2009

In questo numero...

Febbraio è stato un mese intenso per l’Associazione Globus et Locus che ha visto alcuni avvenimenti emergere per il loro interesse all’interno della nostra attività. Innanzitutto segnaliamo una ripresa della riflessione su nuovo regionalismo e beni pubblici che, stimolata dal recente incontro con l’Accademia Europea di Bolzano, ha delineato la prospettiva di un lavoro congiunto. È in tale occasione che ci è stato segnalato il libro “Il nuovo nomos della terra” di Sergio Ortino, che desideriamo condividere con voi nella recensione del mese. Altro momento significativo è stata la presentazione, ospitata dalla Città di Lugano, del libro “Italici” in cui il filosofo Franco Zambelloni, nell’intervento che di seguito vi proponiamo, coglie lo spirito dell’italicità calandolo nella realtà ticinese e allo stesso tempo elevandolo a riflessione sulle identità plurime nel mondo contemporaneo. Sempre nell’ambito dell’approfondimento dell’identità italica nella società glocal abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Maurizio Naldini, giornalista e a lungo corrispondente del quotidiano “La Nazione” in occasione del centocinquantesimo anniversario dello storico giornale. Infine vi segnaliamo l’articolo di Limes a firma di Matteo Bolocan Goldstein in cui si cita il lavoro di Globus et Locus su Milano città glocale e una riflessione sviluppata da Paolo Calzini a partire dalla conferenza sulla società del rischio tenuta dal sociologo Ulrich Beck presso l’Università degli Studi di Milano nel mese di febbraio.

Buona lettura!
 

I porcospini di Schopenhauer e l'Italicità

Le riflessioni del filosofo Franco Zambelloni ispirate dalla lettura del libro "Italici. Il possibile futuro di una community globale" ed espresse nel suo intervento alla presentazione del libro a Lugano, il 3 febbraio 2009.

Fa sempre piacere tenere a battesimo un libro intelligente e questo libro lo è. Stavolta il piacere è anche maggiore perché io sono e mi sento un italico, o meglio, un italiano italico. Sono un lombardo che tanti anni fa, nel 1974, ha lasciato l’Italia, è venuto a vivere nel Ticino e qui ha scoperto di vivere all’estero e di sentirsi a casa.
Questo mio percorso mi sembra possa dimostrare adeguatamente le premesse e il senso che stanno alla base del libro di Piero Bassetti: ci sono legami, ambientazioni, identità che non dipendono da un documento legale come il passaporto, ma vanno ben al di là.  D’altra parte, riflettendo sul concetto di italicità come è esposto nel libro, vien da pensare che ben prima che esistesse l’Italia come stato nazionale, esistevano gli italici. Dante e Petrarca erano italici.

Quando ero ragazzino e studiavo nelle scuole italiane era d’obbligo acquisire la retorica risorgimentale, per cui l’Italia era “una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor”. Più “una” di così era impossibile! Salvo scoprire, poi, che non era mai esistita un’Italia così unita. Non esisteva allora e non esiste neanche adesso.
Vorrei ricordare, a questo proposito, un aforisma dello scrittore siciliano Gesualdo Bufalino: “Ho letto col solito fastidio sul giornale di stamane l’ultimo bollettino della guerra italo-italiana”. Gli italiani, aggregati a forza nell’Ottocento, non hanno mai smesso di sentirsi diversi tra loro e non di rado lontani e conflittuali.


  

 Il concetto di italicità è ben diverso da quello di italianità. Non deriva da un’aggregazione forzata, come fu a suo tempo l’unificazione italiana. Si tratta invece, riprendendo formule usate da Piero Bassetti, di “una polis transnazionale tenuta insieme da un incrollabile senso del noi, che si riconosce al tempo stesso nell’italianità e nel business”, oppure nello “stile di vita” di una comunità spirituale: “una polis che vive stabilmente fuori dai confini italiani ma guarda all’italianità come elemento di aggregazione”. Questo, a mio avviso, è l’aspetto più importante: l’esistenza di un fattore di aggregazione. Perché sappiamo che una coesione o un’appartenenza possono essere determinate per caso, per legge o per coercizione, oppure possono essere volute. Nel primo caso l’associazione si sfascerà alla prima occasione; nel secondo ha più probabilità di sopravvivere.
Guido Calgari, scrittore ticinese, parlando della Svizzera usa questa bella espressione: “la Svizzera è un’unione, non un’unità”. È una bella espressione, molto chiara. Esprime la differenza fra un atto di volontà, un’azione, e uno stato, una condizione che si eredita perché per caso si è nati in un luogo piuttosto che in un altro. L’unione, la volontà di essere uniti, la volontà di stare assieme è il vero elemento aggregante.

Come diceva Bassetti, questo elemento aggregante può essere determinato da fattori molto diversi: non necessariamente dalla lingua, ma certamente dalla cultura. E per cultura non intendo necessariamente la cultura “alta”, accademica, o quella specifica di certi indirizzi di studi. Cultura è anche il modo di cucinare, la musica, il gusto nel vestire… Essa è composta da innumerevoli elementi che non sono riconducibili a una categoria precisa. Nell’epoca attuale, in cui i termini “globalizzazione” e “rimescolamento delle culture” riempiono le prime pagine dei giornali, è probabile che le vecchie identità nazionali si stiano sfaldando, diventino evanescenti; e forse è questo il motivo per cui una nuova identità – non stabilita giuridicamente, non imposta dalla nascita, ma scelta per elezione – dovrebbe cominciare a costituirsi. Se è vero infatti che l’elemento di aggregazione tradizionale – lo stato nazionale – si sta indebolendo e che il rimescolamento delle culture e i cambiamenti in atto stanno travolgendo molte delle identità consuete, è pur vero anche che l’uomo non può vivere senza identità.

Voglio ricordare, a questo proposito, un pensiero di Leopardi. Il poeta lo scrisse nel 1823, ma a distanza di quasi duecento anni ciò che Leopardi scriveva allora nello “Zibaldone” acquista un significato particolare: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini Romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto.”

A distanza di secoli, questa pagina di Leopardi acquista un sapore strano, perché ci troviamo in una fase storica decisiva da cui sta uscendo una cultura nuova, un mondo diverso. Eoggi tutto il mondo, che è nuovo e globale, è patria di nessuno; ma il bisogno di appartenenza rimane. L’uomo oscilla sempre tra un bisogno di libertà e un bisogno di costrizione. È così anche per l’identità e l’appartenenza. Un’identità troppo rigida, frutto di un’imposizione giuridica, non sentita e non voluta, è un’identità che sta stretta come una gabbia. Ma l’uomo ha pur bisogno di aggregazione e di identità e per questo oggi è spinto ad abbracciare non più una sola patria, ma le tante patrie a cui sente di appartenere per affinità culturale e spirituale.

Concludo citando una favola di Schopenhauer che trovo molto istruttiva. In inverno un gruppo di porcospini cominciò a sentire freddo. Allora, per ripararsi dal freddo, i porcospini si avvicinarono e si strinsero fra di loro, ma più si stringevano più si pungevano e si facevano male. Tornarono ad allontanarsi, ma con la lontananza di nuovo soffrivano il freddo. Alla fine, a furia di avvicinarsi e allontanarsi, trovarono la giusta distanza, quella che permetteva di ridurre il freddo con la vicinanza corporea e al tempo stesso di non farsi del male.
Ecco, mi pare che il tema dell’aggregazione e dell’identità riconduca oggi più che mai a questa favola, che del resto riassume la difficoltà di tutti i rapporti umani. Nei rapporti fra individui, come fra gruppi, l’equilibrio è delicato, a volte difficile; ma sono convinto che nuove forme di comunità, dal giusto equilibrio, vadano cercate nella direzione indicata da Piero Bassetti.

Franco Zambelloni

150 anni di "Nazione"

In occasione della recente uscita di un intenso e ben curato libro che celebra e ripercorre i 150 anni del quotidiano " La Nazione", abbiamo intervistato l’autore Maurizio Naldini.  

Insieme a Naldini, storica firma fiorentina del quotidiano, abbiamo provato a riflettere sul concetto di nazione, traendo spunto dall’ esperienza di chi ha saputo raccontare il mondo, tramite i suoi reportage.

Iniziamo da quello che è stato il lavoro che lo ha coinvolto di recente. Dopo aver passato in rassegna 150 anni del quotidiano "La Nazione", che opinione si è fatto sull’idea iniziale risorgimentale del quotidiano di costruire la Nazione?

"La Nazione" nasce quando, con Villafranca, Bettino Ricasoli si accorge che il sogno dell’Italia unita sta svanendo. Cavour si dimette, Vittorio Emanuele non ha la forza di reagire agli accordi tra Francia ed Austria. Ricasoli – che Spadolini definirà il Savonarola del Risorgimento - è l’unico a crederci ancora, vuole un giornale al suo fianco, e alla fine avrà ragione. Ma a quale unità di Italia si tendeva? E’ significativo quanto scrive "La Nazione" nel 1870 a giustificare il fatto che ha deciso di non seguire il governo e il re a Roma capitale: "Non vogliamo che tutta la forza intellettuale si sposti fino a Roma". E dunque, non si vuole che Torino, Venezia, Firenze, Palermo, Napoli, rinuncino alla loro specificità e al ruolo di testimoni critici nei confronti della capitale. Quindi già allora si credeva che l’Italia sarebbe stata migliore rispettando le grandi diversità culturali che esistevano fra città e regioni diverse. Moderna anche la visione dei rapporti Stato - Chiesa. Ricasoli, pur religiosissimo fu in prima linea nella "questione romana" convinto che sarebbe stato un bene per l’uno e per l’altra, uno Stato laico e una Chiesa non impegnata in questioni temporali.

Quindi l’Italia nasce già con l’idea del glocalismo, ma a 150 anni dall’unità italiana che verranno presto celebrati, è giusto pensare che il concetto di Nazione e quindi di Stato Moderno è ormai in crisi in tempi di globalizzazione e cosmopolitismo?

Lo è nei fatti. Già venti anni fa padre Balducci parlava di una dimensione culturale che rendeva armonico il "campanile e il mondo". E oggi lo dimostra il recupero, perfino l’orgoglio di ciò che un tempo veniva con disprezzo chiamato provincialismo. Lo si intende come un’appartenenza irrinunciabile proprio perché coniugato col fatto di essere e sentirsi cittadini del mondo. In questo, Firenze è davvero la città che può svolgere un ruolo guida. Quanto viene vissuto altrove come una dicotomia, qui da sempre è stata una naturale realtà. Arrivavano i letterati impegnati nel Grand Tour, avevamo il gabinetto Vieusseux che ci offriva in tempo reale gli ultimi volumi (da Darwin a Hugo) usciti all’estero, avevamo inglesi, svizzeri, russi, e nello stesso tempo vivevamo una realtà minuscola, con il centro storico che era, ed è degno di un paese o poco più. Oggi, a maggior ragione, la convivenza armonica di queste due dimensioni, solo in apparenza opposte, è la normalità anche per le classi più umili.

Lei è stato un reporter che ha raccontato nei suoi reportage fatti ed eventi per "La Nazione", avrà certamente incontrato italiani un po’ ovunque. Quale idea si è fatto degli italiani fuori d’Italia? E’ d’accordo con Gaber quando diceva che: "Secondo me gli italiani non si sentono per niente italiani. Ma quando vanno all'estero li riconoscono subito"?

Mi pare che la frase di Gaber (da quello che capisco nel frammento citato) sia un condensato di luoghi comuni, che intristisce per la sua banalità. Ho conosciuto molti italiani all’estero, che certamente si facevano notare per la qualità del loro impegno ed erano ben orgogliosi di manifestarsi italiani. Perfino i più umili (un alcolizzato in un villaggio costiero dell'Honduras che raccontava storie fantastiche e quando si portava un flauto alla bocca ne traeva armonie da vertigine) erano sempre diversi, mai mediocri. Penso anche a un barman ottantenne che in smoking bianco tutte le sere serviva (con una classe irraggiungibile) splendidi cocktail in Kenya, penso ad alcuni missionari della Sierra Leone, coraggiosi nel salvare i bambini soldato, penso a manager incontrati a New York, ristoratori a Londra, imprenditori in Algeria. No, Gaber mi sembra rimasto ai minatori di Marcinelle, e se non sono d’accordo con lui lo sono invece con Prezzolini, che ho avuto modo di conoscere e col quale ho lavorato, che in tempi insospettabili indicava gli italiani come "il lievito del mondo". Per questo incapaci, di essere nazione.

Noi, in questo sito, abbiamo definito l’italicità, come l’identità paradigmatica in grado di definire i cambiamenti identitari nel periodo della globalizzazione al posto del concetto di italianità più legato ad un paradigma nazionale-moderno? Dalla sua esperienza è d’accordo con questa idea?

Sì, se per italicità si intende una serie di specificità comuni, culturali, ma anche elementi del carattere, potenzialità di espressione, creatività. Del resto è proprio a questi elementi che facevano riferimento anche i risorgimentali, visto che mai era esistita prima di allora l’Italia come entità politica. Mentre c’era stata l’Europa, sotto la guida degli imperatori, oltre alla Chiesa nella sua dimensione ecumenica e quindi globale.

Intervista a cura di Riccardo Giumelli 
 

Crisi e rischio globale

Il sociologo tedesco Ulrich Beck il 6 febbraio scorso ha tenuto una conferenza presso l’Università degli Studi di Milano dal titolo "Risk's society cosmopolitan moment".

L’attuale gravissima crisi finanziaria è la manifestazione emblematica della società del rischio teorizzata dal sociologo tedesco. La società moderna fondata sul rischio, potenzialmente apportatrice di conseguenze catastrofiche non anticipabili, si ispira a un pensiero utopico scientifico che identifica la modernità con un’economia industriale non regolamentata.

In questa prospettiva, l’eventuale sempre possibile passaggio da una condizione di rischio a una di catastrofe risulta particolarmente gravida di minaccia perché imprevedibile nei tempi di attuazione e incalcolabile per il grado di intensità.

Il tratto caratteristico dell’attuale crisi è la forza demolitrice con cui ha investito l’assetto politico economico mondiale, di matrice capitalista liberale e fondato sul sistema degli stati nazionali.

Al crollo dei mercati finanziari è seguito uno shock politico psicologico, unito alla consapevolezza di dover agire entro parametri operativi completamente rinnovati.

La risposta che Beck propone all’attuale situazione di emergenza è una realpolitik cosmopolita che travalica gli interessi nazionali particolari promuovendo una rete di collegamento fra gruppi e individui uniti dall’esigenza di operare in comune nell’ambito di un contesto globale.

Questa realpolitik, condizione necessaria di sopravvivenza, impone una linea d’azione adeguata all’ampiezza della sfida, in grado di sostenere un impegno di prima grandezza nell’elaborazione di un corso politico radicalmente innovativo sia sul piano degli strumenti che degli obiettivi. Tutto questo naturalmente suscita nelle autorità degli stati e nei movimenti della società civile profondi interrogativi sia in termini di legittimità che di realizzabilità. Tali interrogativi si pongono in coerenza con il principio di cautela, che resta comunque riferimento indispensabile di una politica di gestione del rischio responsabile e efficace, di fronte a un fenomeno di questa portata.

Contribuire alla riflessione sui grandi temi del nostro tempo stimolati da provocazioni intellettuali quali, in questo caso, quelle del pensiero di Ulrich Beck è uno degli obiettivi principali che si pone Globus et Locus. L’impegno a studiare questi fenomeni nelle diverse manifestazioni a livello locale, nazionale e internazionale cogliendone la complessità e stimolando lo sviluppo di prassi, assume il rilievo di una questione di responsabilità politica oltre che intellettuale.

di Paolo Calzini

Per approfondimenti:

Ulrich Beck: “Risk’s society cosmopolitan moment”


Limes: Milano glocal

Segnaliamo il bell'articolo "Milano terra di mezzo. Ovvero il trionfo del glocalismo" di Matteo Bolocan Goldstein. 

Pubblicato dalla rivista di geopolitica Limes nello speciale "Esiste l'Italia? Dipende da noi",l'articolo cita il lavoro e i risultati del progetto su Milano portato avanti dalla Camera di Commercio di Milano in collaborazione con Globus et Locus.

La capitale lombarda è, al contempo, crocevia delle dinamiche globali e fulcro di potenti interessi locali. Ma, al pari del Nord Italia, non riesce a ‘fare sistema’. L’Expo 2015 è un’occasione da non sprecare...

Vai all'articolo: http://temi.repubblica.it/limes/milano-terra-di-mezzo/

 

Forum Mediterraneo

Globus et Locus parteciperà al "Forum del Mediterraneo Occidentale" che si terrà a Genova il prossimo 13-14 marzo.

La conferenza, organizzata dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea e dall'Assemblea Legislativa e Giunta della Regione Liguria si propone di sviluppare i rapporti fra le società civili delle due sponde del Mediterraneo occidentale, a complemento e integrazione dei rapporti intergovernativi promossi dall’Unione per il Mediterraneo.

 

Dialoghi nel Mediterraneo occidentale
Le regioni e la società civile per la cooperazione regionale e la democrazia partecipativa

Genova, 13 e 14 marzo 2009
Magazzini del cotone - Porto Antico

Per maggiori informazioni e per partecipare, accedere alla pagina della Regione Liguria.






 La recensione del mese

 "Il nuovo nomos della terra" di Sergio Ortino, Il Mulino, Bologna, 1999

Questo mese abbiamo deciso di sottoporre all’attenzione dei lettori non una nuova uscita editoriale come facciamo solitamente, ma di recuperare un volume pubblicato 10 anni fa, che abbiamo riscoperto di recente e reputiamo di grande interesse.    

Perché recensire un libro dieci anni dopo la sua apparizione? Soprattutto se si tratta di un saggio sulla glo-calizzazione, il processo in rapido mutamento che ridisegna le direttrici socio-organizzative che le società contemporanee stanno scegliendo per il presente e il futuro?

Noi siamo convinti che il libro di Sergio Ortino, ancora attualissimo, meriti una citazione perché ha resistito – e bene – al tempo impietoso che rende spesso obsolete analisi e previsioni della società globale.

Prima di tutto, non è un libro di sola analisi o che propone unicamente scenari a venire.

Si tratta di un utile compendio storico-analitico delle - a detta dell’autore - quattro grandi "suddivisioni" spazio-temporali che hanno caratterizzato le società umane.

Il nomos citato nel titolo del libro da Ortino va inteso nell’accezione di Carl Schmitt: "La parola greca che designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria è nomos. (…) Il nomos nel suo significato originario indica piena 'immediatezza' di una forza giuridica non mediata da leggi; un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge".

Nella storia dell’umanità vi sono stati, secondo Ortino, quattro di questi eventi storici costitutivi che hanno, di fatto, costituito la base di ogni discorso normativo e quindi giuridico.

Il primo evento costitutivo caratterizza le società primigenie, dedite alla caccia, alla pesca e alla raccolta dei prodotti della terra. L’atto costitutivo di una società del genere è la tribalità e la compartecipazione col mondo naturale circostante. In questa fase l’uomo cerca di inserirsi nei processi naturali ricercando un "equilibrio cosmico" con il creato.

Il secondo evento costitutivo, che stravolge il nomos dell’epoca precedente portando alla centralizzazione e all’accumulazione all’interno delle società umane, caratterizza la "rivoluzione agricola". L’uomo diventa vieppiù sedentario, accumula beni e accentra i suoi centri di potere nelle città. In questa fase si profila il potere di un individuo accentratore quale è il re.

Il terzo evento costitutivo si verifica all’inizio della rivoluzione industriale, che Ortino retrocede di due secoli rispetto ai canoni classici, situandola in concomitanza con le grandi scoperte geografiche. Le nuove società emergenti, a differenza dell’epoca dell’agricoltura, sono quelle che si affacciano sul mare, in grado di gestire commerci e conquiste a livello globale.

Il quarto e ultimo evento, recentissimo, è stato indotto dalla comunicazione a tempo e spazio prossimi allo zero che ha unito e unificato il mondo. Una nuova ri-unione di tutti gli uomini, al di là di divisioni nazionali, si sta profilando causata e consentita dalle recenti innovazioni tecnologiche che hanno dato al mondo come lo conosciamo un nuovo spazio, quello virtuale. Un regionalismo, oltre che politico soprattutto economico, si sta profilando come risposta alla caduta delle barriere politiche e culturali.

Il libro di Ortino, che dieci anni fa poteva apparire utopico per quel che riguarda l’orizzonte futuro, si rivela quest’oggi profetico con una attualissima proposta di federazione delle polis e delle attività umane. "Nelle esperienze tradizionali e più consolidate di Stato federale come Stati Uniti, Svizzera, Germania, Canada, Australia, il federalismo è stato sempre inteso come ordinamento politico attraverso cui vengono distribuiti i diritti sovrani tra le entità centrali e le entità periferiche, presenti all’interno del proprio territorio. Un federalismo, quindi, che ha ancora alla base la concezione dello Stato sorto nel XVI secolo in Europa". Accanto a queste forme tradizionali di federalismo strutturale, Ortino sottolinea l’emergere di nuove forme di federalismo funzionale. Un federalismo "in grado di ridisegnare e riorganizzare in tempi ragionevolmente brevi gli assetti territoriali-statali in conformità ai grandi cambiamenti strutturali della nostra epoca". Già nel 1999, quando la rivoluzione tecnologica apportata dal web e dalla tecnoscienza era ancora abbozzata, Sergio Ortino prefigurava "un ordine mondiale pluralista di tipo reticolare, in cui i singoli individui avrebbero potuto scegliere il livello di governo territoriale più idoneo alla soluzione dei loro problemi, come pure l’organizzazione indipendente e autonoma da qualunque potere pubblico territoriale, idonea a tutelare interessi specifici al di là di qualunque confine politico."

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