Rapporto Italiani nel mondo 2007
Nel mese di ottobre la Fondazione Migrantes ha presentato in diverse città italiane il «Rapporto Italiani nel Mondo 2007» che, con la sua periodocità annuale, si propone come un ponderoso libro per conoscere i flussi globali italici di oggi e ricordare le migrazioni di ieri, unendo alle pagine di storia le situazioni attuali e salvaguardando il legame tra queste due realtà.
Questa seconda edizione del Rapporto è composta da ben 37 capitoli, opera di 47 autori che non fanno capo soltanto alla Redazione centrale della Fondazione Migrantes e agli organismi del Comitato promotore (Acli, Inas-Cisl, Mcl, Missionari Scalabriniani), ma che appartengono anche ad altre espressioni del mondo associativo e alle strutture pubbliche.
L’importanza della ricerca è data da un nuovo approccio, che prende in considerazione e ribadisce il grande significato della dimensione italica globale, valutata come tre volte più grande di quella che si trova in Italia. Rispetto ai 55 milioni di residenti in Italia essa conta, infatti, oltre ai 3 milioni e mezzo di italiani all’estero che hanno conservato la cittadinanza, tra i 60 e i 70 milioni di oriundi, tra figli, nipoti e pronipoti, e più di 100 milioni di cittadini esteri interessati alle cose italiane.
L’Italia è stato un caso unico tra i grandi paesi industrializzati, con più di 28 milioni di emigrati dal 1861 ad oggi. Un terzo di queste persone sono rimpatriate, spesso con i loro figli, mentre è elevato in Italia il numero di residenti nati all’estero, che include non solo la presenza dei cittadini stranieri ma anche i protagonisti dell’emigrazione di ritorno.
A fronte di un’emigrazione del passato, umile e in cerca di lavoro, oggi i connazionali all’estero sono spesso professionisti affermati e molti sono pure i cosiddetti cervelli in fuga dalle università italiane verso migliori condizioni di lavoro. È inoltre foltissima, anche se difficilmente quantificabile, la schiera degli studenti che si recano all’estero per imparare le lingue. Sempre in ambito linguistico, cresce anche la domanda di italiano che è oggi la quarta lingua più studiata nel mondo. Nell’insieme sono oltre 600.000 nel mondo le persone che studiano l’italiano presso le scuole pubbliche locali, le università, gli Istituti italiani di cultura e le diverse associazioni attive nella promozione della nostra lingua.
Nel mondo globalizzato, il fenomeno migratorio viene sempre di più percepito come un fatto che prescinde da una dimensione nazionale. È l’evidenza dei fatti – l’interesse per il “mondo in italiano” è molto più esteso di qualsivoglia dimensione nazionale – che fa capire come i più di 28 milioni di espatriati “storici” dall’Italia e dalle terre italiche (Svizzera italiana, Dalmazia ecc.) abbiano prodotto una discendenza numerosa ed estesa che interagisce con l’Italia ma anche, ormai, in modo reticolare fra i vari nodi locali che la compongono.
Per approfondimenti: www.rapportoitalianinelmondo.it
Intervista a Valentina Porcellana
Abbiamo posto alcune domande a Valentina Porcellana, giovane ricercatrice e autrice del saggio "In nome della lingua. Antropologia di una minoranza ", Aracne 2007
Nel suo libro lei assume la dicotomia globale/locale come quadro di riferimento, sostenendo che la globalizzazione non produce la distruzione delle comunità locali, ma consente a quest’ultime di ritrovare una collocazione e un senso. In che modo ciò è avvenuto o può avvenire per la minoranza francoprovenzale da lei studiata?
Già nel 1973, durante il convegno “Le Alpi e l’Europa”, l’impostazione data al dibattito superava la dicotomia locale/nazionale a favore del rapporto - che si iniziava a intravedere - tra locale e globale.
Ciò che gli abitanti della montagna, in molti casi, non tengono in conto è che, da una parte, il loro mondo non è mai stato immune da influenze esterne e, dall’altra, che il contatto culturale ha consentito alle periferie di fruire di nuove risorse - tecnologiche, culturali, simboliche - che rimodellano e integrano il materiale locale esistente. Questo processo, invece di essere vissuto con il senso della sfida e dello slancio verso il futuro, è percepito, da molti, solo negativamente, come uno snaturamento della realtà tradizionale. Questo è uno dei motivi per cui si cerca un ancoramento al passato attraverso l’uso della lingua locale, l’apertura di musei etnografici, la riproposta di feste e di attività artigianali tradizionali e così via. Nel caso dei gruppi di lingua francoprovenzale del Piemonte, al localismo e al senso di appartenenza legato ad uno specifico luogo (il villaggio, la valle), si è rinforzato il senso di appartenenza al mondo alpino, alla montagna contrapposta alla città; la regione alpina include infatti tutte quelle realtà locali che condividono caratteri simili perché inserite in un ambiente naturale comune.
Nel suo libro lei sostiene che la rivendicazione identitaria della minoranza francoprovenzale si è coagulata a partire dal riconoscimento di una parlata comune. Quali sono gli elementi distintivi di questo processo transfrontaliero di costruzione identitaria?
L’uso strumentale dell’etnicità, dell’identità, del particolarismo linguistico può essere spiegato come un dispositivo culturale messo in atto dai gruppi di minoranza in risposta ad una deprivazione sia sul piano materiale sia su quello simbolico. Nel caso francoprovenzale la rivendicazione identitaria è pacifica, anche se i simboli scelti sono di tipo nazionalistico: la bandiera in cui dovrebbe riconoscersi l’intero “popolo francoprovenzale” delle valli alpine italiane, la carta geografica che delimita a livello internazionale i confini dell’area linguistica, l’ipotesi di un inno. La costruzione identitaria passa inoltre attraverso i corsi di lingua e cultura francoprovenzale che si sono moltiplicati a partire dal 1999 in quanto finanziati dalla legge n. 482 in materia di tutela delle minoranze linguistiche, nonché attraverso la musica, il teatro in patois, i dizionari, i testi di grammatica.
Nella realtà contemporanea, in cui la mobilità e le reti hanno intaccato la convergenza popolo--territorio, può essere corretto inserire la minoranza francoprovenzale all'interno di una più vasta appartenenza italica?
Più che di appartenenza italica nel caso francoprovenzale credo sia più corretto parlare di tre livelli di identità, che allargano o restringono i confini identitari. Il primo livello, ancora molto forte, anche se con tensioni interne più o meno esplicite, è quello di “villaggio”, unità geografica e sociale, caratterizzato dal sentirsi e dal definirsi appartenenti ad un ristretto gruppo che vive in un determinato luogo. Il secondo livello, attualmente in fase di costruzione da parte di un gruppo ristretto di intellettuali locali, è quello dell’identità “francoprovenzale”. Esso prevede, attraverso un’operazione di selezione e proposta di simboli, la formazione di una coscienza comune che superi sia i confini del villaggio, sia quelli della nazione, allo scopo di inglobare in un unico “popolo” tutti coloro che condividono gli stessi tratti linguistici e lo stesso habitat naturale, costituito dalla montagna. Il terzo livello identitario, che in parte si sovrappone al secondo, ma che è ancora più inclusivo è l’identità alpina. Essa ingloba, a livello transalpino e transnazionale, tutti coloro che vivono in montagna; la linea di confine dunque non passa a livello linguistico, distinguendo i francoprovenzali dagli occitani, dai walser o da qualsiasi altra minoranza linguistica, ma la cesura è segnata tra montagna e pianura.
Per approfondimenti si allega il contributo "Alpi e Glocalizzazione" a cura di V. Porcellana
Piacenza: al servizio di o con Milano?
È stato questo il tema posto a Piero Bassetti da Gianluigi Boiardi, Presidente della Provincia di Piacenza e nuovo socio di Globus et Locus, in occasione della presentazione del bilancio di metà mandato svoltasi lo scorso 31 ottobre.
Sulla base degli studi promossi da Globus et Locus sul sistema della logistica nell’area padana, Piacenza è risultata un punto strategico per l’intero Nord-Italia, per il suo essere collocata, seppur senza intercettarli direttamente, vicino ai principali assi di collegamento del corridoio 5 e interessata dalle piattaforme Brennero-Tirreno e dal Corridoio dei due Mari.
Quello della logistica è un tema caldo per Piacenza: "una logistica da ripensare e rilanciare, nella convinzione che sia un fattore strategico per il territorio e che possa portare sviluppo, occupazione e innovazione", come emerge dalle parole di Boiardi. La Provincia è assolutamente consapevole dell’occasione: “Lavorare in rete, disegnare progetti più vasti, pur salvaguardando le specificità locali, sono opportunità che la Pubblica Amministrazione deve saper cogliere per affrontare le sfide del mondo glocal”.
Maggiori approfondimenti sono disponibili sul sito della Provincia di Piacenza.
A lezione di Italicità
La Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Firenze, propone alcuni interessanti master in comunicazione, tra cui, il Master in Comunicazione e Media, e il Master in Communication Media and Culture (in lingua inglese).
Il Master in Comunicazione e Media, diretto da Giovanni Bechelloni, è l’unico Master dell’Università degli Studi di Firenze ad afferire al Programma Erasmus Mundus, offrendo la possibilità a studenti europei ed extra europei, di fare un European Master e la disponibilità di borse di studio dell'Unione Europea destinate ad allievi e docenti provenienti da Paesi extraeuropei.
Una parte del corso inoltre sarà dedicata al tema dell'identità italiana, ed in particolar modo ai suoi risvolti italici, alla memoria storica italica ed ai processi migratori che nel corso del tempo hanno segnato la civiltà italiana.
Bando e domanda di ammissione: www.unifi.it/master (Fac. di Scienze Politiche)
Per informazioni e colloqui: mediacom@unifi.it
La recensione del mese
Kwame Anthony Appiah,“Cosmopolitismo – l`etica in un mondo di estranei” , Laterza 2007
Kwame Anthony Appiah, l'autore di “Cosmopolitismo”, ha cercato di trovare in questo saggio la sintesi che meglio potesse esprimere l`essenza (e la auspicabile tendenza futura) del mondo attuale.
Viviamo in un mondo fittamente interconnesso che necessita di dialogo e che non può essere definito semplicemente globalizzato e neppure multiculturale, termine ambiguo, che spesso indica la malattia che pretende di curare.
“La rete mondiale di informazioni – radio, televisione, telefono, internet – non implica soltanto la possibilità di influire sulla vita degli altri, ovunque essi si trovino, ma anche quella di imparare dal loro modo di vivere. Ogni individuo di cui sappiamo qualcosa e su cui possiamo avere una qualche influenza è una persona di cui dobbiamo sentirci responsabili: dire questo significa riaffermare l'idea stessa di morale. La sfida, quindi, è prendere menti e cuori formati nel corso di lunghi millenni di vita in gruppi locali e dare loro idee e istituzioni che ci permetteranno di vivere insieme in una società che è diventata una tribù globale”.
La responsabilità di cui parla l'autore si traduce in un approccio cosmopolita e quindi aperto e coinvolgente rispetto all`altro, il diverso o l`estraneo. Secondo l’autore, lo scontro di civiltà può essere evitato proprio in presenza di un linguaggio e modo di agire globale condiviso di cui un'etica comune e riconosciuta può rappresentare la trama principale.
Kwame Anthony Appiah si impegna in un'analisi attenta dei fatti locali in rapporto a quelli globali analizzando i vantaggi delle contaminazioni culturali e i limiti delle rigidità fondamentaliste nel ribadire la necessità, in questo nostro mondo che è ormai un orizzonte unico, di un approccio etico non relativistico ma autenticamente umano.
La relazione sempre più stretta tra le dimensioni locali e quella globale, di cui l’autore è consapevole, risulta quindi essere la base necessaria per l’edificazione di un principio etico condiviso e per una comprensione autentica tra i luoghi e i popoli della Terra.