Editoriale
Gli spazi e i poteri delle regioni nel contesto globale
Negli ultimi decenni, come è noto, sono stati attribuiti alle Regioni, non solo in Italia, crescenti poteri e competenze, anche in ambito internazionale.
Ma va osservato che questo processo non è stato, o lo è stato solo in minima parte, determinato dalla volontà degli Stati. Questi lo hanno anzi generalmente contrastato e hanno comunque tentato di ridimensionarlo. Sono stati invece i processi di globalizzazione dell'economia e della società civile, la rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni e nei trasporti, a promuovere il cambiamento istituzionale.
Sono nati, in questo modo, nuovi spazi pubblici che trascendono i confini nazionali. La domanda che emerge è: come si possono gestire questi spazi con le strategie politiche tradizionali? Con la globalizzazione, è infatti saltata la separazione fra il “dentro” e il “fuori” o, in altre parole, fra la politica interna e la politica estera.
Le Regioni hanno tentato di rispondere a queste nuove necessità emergenti. Esse, in sostanza, sono chiamate a diventare sempre più (in qualche modo sono “costrette” ad esserlo) il luogo deputato dell’innovazione istituzionale e progettuale, dove si sperimentano nuove politiche glocali.
La specificità delle Regioni, o almeno di quelle come la Lombardia che hanno una consistenza e un peso particolarmente rilevanti e che si configurano come una sorta di grande “città diffusa”, consiste nel fatto di coniugare, nella loro operatività, una dimensione nello stesso tempo subnazionale e transnazionale.
Sono le sfide concrete dell’operatività politica, al di là della varia e specifica configurazione giuridica e istituzionale delle diverse Regioni europee, a determinare questa identità.
Il fatto è che non si possono più fare efficaci politiche industriali, ambientali o sui flussi migratori, senza intervenire nello stesso tempo “dentro” e “fuori”.
E’ in corso – ne sono segnali recenti ad esempio i movimenti in atto fra Piemonte e Liguria, le iniziative lombarde di cooperazione interregionale europea, o le iniziative del Friuli Venezia Giulia verso l’Europa centrale – un processo di ricerca di nuovi spazi relazionali da parte delle Regioni, dentro e fuori i confini nazionali, al fine di rendere possibile la realizzazione di nuove politiche.
La Regione, in sostanza, è un pezzo di mondo e come tale ha sempre meno bisogno di intermediazioni.
Questi temi sono stati dibattuti in occasione del Convegno "The International Relations of the European Regions" organizzato dall'ISPI il 25 settembre 2007.
Italiano, lingua di elezione
L’ISI, Istituto di Studi Italiani, diretto dal prof. Carlo Ossola, è il nome della nuova costola dell'Università della Svizzera italiana di Lugano, che ha avviato da poco un master dedicato allo studio delle lettere italiane e della civiltà nata e sviluppatasi in Italia e nei territori italofoni.
Il corso intende coinvolgere, oltre agli studenti, anche la società civile attraverso una serie di otto conferenze pubbliche di grande interesse aventi come filo conduttore la creazione. “Il tempo è un vecchio stanco che corre alla fine o, ad ogni nascita (di uomini, di aurora, di stagioni, di anno) è capace di rinnovarsi? Questa domanda, che attraversa le lettere, le arti, la musica, è stata al centro della prima conferenza tenuta il 19 settembre da Carlo Ossola e Carla Caffi sul tema "L'italiano: ricreare un dialogo per l'Europa". Una lingua melodica che prescinde dal puro significato delle parole che la compongono e si apparenta alle altre lingue europee sostenendole e integrandole. L'italiano diventa allora una delle lingue cardine per l'Europa affinché una comprensione reciproca componga in modo armonico i diversi idiomi del vecchio continente.
Il patrimonio della nostra lingua, a detta dei relatori, è ricco e riconosciuto. Ciò che oggi viene meno, invece, è la coscienza di questo lascito. Sempre meno studenti scelgono l'italiano come disciplina principale. L'ISI parte dalla scommessa di convocare l'Europa – e di tale provenienza e formazione sono i docenti e parte degli iscritti del master – per ridare slancio all'italiano quale lingua di elezione.
La prossima conferenza, a cura di Piero Boitani su“In Principio:da Dante a Michelangelo”, si terrà il 10 ottobre p.v. presso l’Università della Svizzera Italiana di Lugano.
Per info: www.isi.com.unisi.ch
Quale futuro per il Belgio?
La provocazione dell’Economist di abolire lo Stato del Belgio - incapace di darsi un governo perché bloccato dal conflitto tra fiamminghi e valloni - ha aperto un dibattito nella stampa estera sulla crisi del Paese.
Ma è davvero questo il punto, la possibilità di scindere il Belgio in due Stati minori, quello francofono e quello fiammingo?
Se analizzato da una prospettiva glocal, questo tipo di dilemma perde di senso. Innanzitutto, in un mondo globalizzato, non si può più pensare che lo Stato risponda ad un’identità culturale unica. La cittadinanza non può essere definita in base a criteri di lingua, etnia, religione, perché tra migrazioni e pluriappartenze, la composizione di qualunque popolo di riferimento è incredibilmente varia.
Ma ancora di più, è proprio la forma stessa dello Stato nazionale a non rispondere più alle esigenze degli individui di essere rappresentati e governati. In fondo lo stesso Stato del Belgio è una costruzione politica che rispondeva nell’ottocento a un’esigenza geopolitica contingente. La globalizzazione invece esige una nuova politica, capace di esprimersi con nuove forme di convivenza sociale, trasversali e flessibili. L’elemento centrale non è più lo Stato nazione ma di volta in volta possono essere le subregioni o le aggregazioni di stati - come l’Unione Europea – o nuove categorie funzionali che abbraccino in modo orizzontale interessi omogenei.
Anche per i belgi allora, il tema dello stato, o della sua rinuncia, va affrontato alla luce della logica glocale, che ha nella dimensione statuale uno dei suoi punti di crisi.
Alpi ed Europa
Cosa sono le Alpi nell’Europa contemporanea e quali linee di frontiera passano oggi al loro interno.
Sono questi i temi che saranno approfonditi in occasione del Convegno "Alpi Punto Zero Sette",il 5 ottobre a Torino all’interno dell’Expo ALPI365.
Programma
Sito ufficiale: www.alpi365.it
La recensione del mese
"Savage Century: Back to Barbarism", Thérèse Delpech, Carnegie Endowment for International Peace, 2007
“L’ensauvagemente – le retour de la barbarie au XXI siècle”, nella sua versione originale francese, è un testo recentemente ristampato in edizione economica in lingua inglese, la cui autrice Thérèse Delpech è docente associato in Filosofia e Direttore degli Affari strategici presso il Commissariat à l’Energie Atomique e probabilmente una delle maggiori esperte mondiali di relazioni internazionali e dei problemi legati allo sviluppo degli armamenti nucleari.
Chi aveva trovato grandi stimoli ed interesse nell’ormai famoso libro di Samuel Huntington “Lo scontro delle civiltà” non può fare a meno di leggere anche questo.
Il punto di partenza è il caos ed il pericolo di violenze e conflitti che via via stanno crescendo nel mondo contemporaneo. I cambiamenti sperati dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra Fredda non sembrano così allettanti, anzi nuovi nubi oscure ed indefinibili sembrano ricoprire i cieli sopra la terra. I toni di Delpech non sono certo apocalittici ma insinuano nei pensieri tensioni pessimistiche e paure più che mai concrete.
Stiamo forse andando/tornando verso nuove forme di barbarie di carattere planetario? Verso nuove ignoranze dettate da un accecamento che ancora non ci chiarisce la realtà, la convivenza umana, la possibilità di abitare più o meno pacificamente questo mondo? L’accecamento deriva proprio dal paradosso di una natura fortemente controllabile, di un potere tecnologico che l’uomo detiene e che modifica continuamente gli scenari globali. Il pericolo reale è di una perdita della memoria, delle sofferenze umane, delle morti, delle torture, degli errori umani commessi a favore di un appiattimento sul presente dettato da impulsi consumistici e di appagamento immediato.
Al contrario di quanto detto da Hobsbawm il XX secolo non è stato un secolo breve (1914-1991), ma lì vi è iniziato - all’opposto - un secolo lungo che ancora non ha espresso tutte le sue possibili conseguenze. Il male peggiore è non cogliere i segnali di pericolo che emergono dagli eventi, come già era successo nel fatale 1905, anno in cui si poteva far cambiare una rotta alle circostanze che invece avrebbero portato a conflitti e violenze inaudite. Thérèse Delpech, così, dopo aver ricostruito gli eventi di quell’anno ipotizza le conseguenze che si potrebbero determinare nel 2025 negli scenari cardine del prossimo futuro: Medio- Oriente, Estremo-Oriente e Russia.
In una situazione di così delicata e profondamente pericolosa la critica più amara che Delpech indirizza è verso l’Europa, ancora troppo dubbiosa, incerta, intimorita ed ingabbiata dagli interessi nazionali per alzare la sua voce, l’unica consapevole dopo secoli di devastazioni in grado di proporre veri e nuovi processi di mediazione e negoziazione.
Recensione a cura di Riccardo Giumelli