Globus et Locus newsletter n.6 2008

L'Unione per il Mediterraneo

Opportunità per l'Italia e le sue Regioni forti

Il 13 luglio prossimo, verrà ufficialmente formalizzata la realizzazione di una ”Unione per il Mediterraneo”, in occasione di un summit dei capi di Stato e di governo euro-mediterranei che si terrà a Parigi, nel semestre di presidenza francese dell’Unione europea. Nell’attesa che vengano comunicati gli ambiti progettuali di concentrazione dell’iniziativa, Globus et Locus, l’Istituto Paralleliper il Mediterraneo, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), e il Centro in Europa di Genova, hanno promosso il 4 luglio a Torino un seminario di riflessione e confronto sulle opportunità e le sfide che l’UMed aprirà alle istituzioni, al mondo produttivo e alla società civile del Nord Italia, regione geograficamente e strategicamente centrale nella relazione euro-mediterranea.
 



Durante il dibattito, Globus et Locus ha sottolineato il ruolo, per molti aspetti decisivo in un progetto come questo, che potranno giocare i nuovi attori istituzionali del contesto globale in cui viviamo; attori altri e diversi dallo Stato italiano che firmerà il documento di Parigi, quali le istituzioni territoriali e funzionali(regioni, comunità locali, camere di commercio, università ecc.) e quelle dell'economia e della società civile(imprese, associazioni, ong ecc.).
L'azione dal bassodi questi attori è essenziale soprattutto per costruire quella decisiva rete di rapporti, quel fondamentale “tessuto” di relazioni–determinante all'interno dell'Europa lungo tutto il percorso “funzionalistico” dell'integrazione dal secondo dopoguerra ad oggi – che in qualche misura già il processo di Barcellona ha avviato a partire dal 1995.

Programma del seminario

Intervento di Piero Bassetti

 

L’innovazione italiana? S’è desta

Intervista a Francesco Morace e Roberto Panzarani.

Mercoledì 11 giugno, a Milano, si è tenuta la presentazione del libro di Roberto Panzarani, "L'innovazione a colori: una mappa per la globalizzazione" edito da Luiss University Press.

Abbiamo intervistato l'autore e Francesco Morace, presidente di Future Concept Lab, uno dei discussant che ha partecipato al dibattito che ha coinvolto anche Piero Bassetti, presidente di Globus et Locus e della Fondazione Bassetti, Roberto Barabino, responsabile del Club per l'innovazione di Intesa Sanpaolo e Corrado Ocone, per la casa editrice.

Francesco Morace, lei dirige Future Concept Lab, una vera e propria fucina di idee e di analisi per e dell'innovazione in Italia. Qual è, a tutt'oggi, lo stato delle cose nell'economia italiana per quel che concerne l'orizzonte innovativo? Quanta innovazione applichiamo ai nostri processi produttivi? Come e quanto siamo interconnessi col mondo che cambia e ci cambia?

"Praticamente tutte le ricerche che abbiamo realizzato in questi anni come Future Concept Lab, l'istituto che dirigo, dimostrano che l'Italia ha un proprio modello di funzionamento. Gli imprenditori, sia quelli grandi che quelli meno grandi, sono bravissimi a individuare dei percorsi, delle visioni che portano avanti con grande passione e competenza, e anche con una notevole capacità innovativa. Insomma, non è vero che gli italiani non sono innovativi, diciamo che sono innovativi in un modo che i parametri anglosassoni non riescono a quantificare. I nostri distretti industriali e alcune storie di eccellenza che hanno messo in primo piano alcune nostre aziende sono lì a confermarlo. È un peccato, invece, che non sia mai stata creata una rete in grado di costituire una piattaforma per il nostro sistema paese. Ciò si è verificato o, meglio, non si è verificato per motivi storici, istituzionali e politici. Inoltre, da noi vi è una certa mancanza di visione all'interno della pubblica amministrazione, campo in cui sono altri ad eccellere, come ad esempio i francesi. Finora non abbiamo sviluppato adeguatamente questo tipo di cultura e di pratica e quindi questo segmento vitale per la nostra "economia innovativa" deve essere costruito quasi ex novo".

Come giudica, nell'ottica di un auspicabile deciso miglioramento delle condizioni in cui andrebbe sviluppato l'approccio innovativo dell'economia italiana, gli stimoli proposti in questo ambito dal libro di Roberto Panzarani?

"Ciò che mi sembra di grande attualità in questo momento e che viene puntualmente raccontato nel libro di Panzarani è questa incredibile domanda di italianità e cioè della qualità italiana che si percepisce all'estero. Ci viene insomma riconosciuta una qualità di vita quotidiana superiore e da condividere attraverso il gusto e l'equilibrio che si riscontano anche nei nostri prodotti. Il gusto che caratterizza in modo così naturale la nostra moda, l'abbigliamento, l'alimentazione e il design a noi risulta spesso ovvio e quindi, per certi versi, non riconoscibile. Il mondo ci desidera ma spesso e volentieri noi non ne sappiamo il perché. Ritengo, quindi, che dal punto di vista politico istituzionale non ci sia in realtà moltissimo da fare, sarà invece importante riconoscere la qualità che caratterizza i nostri prodotti, prodotti che assomigliano grandemente ai nostri valori. È giunto il momento di far interagire in modo virtuoso le competenze produttive, le competenze creative con la capacità di fare marketing, e cioè comunicazione, il segmento che fino ad ora è stato purtroppo il nostro tallone d'Achille. Urge quindi una mappatura puntuale di ciò che è qualitativo da noi anche in vista di un ricompattamento deciso - il momento di agire è quello attuale - con le componenti esterne all'Italia stessa, quelle italiche tanto per intenderci, secondo la nota classificazione del dottor Bassetti".

Roberto Panzarani, docente di psicologia delle organizzazioni, responsabile della formazione di grandi imprese, studioso delle problematiche relative al capitale intellettuale, è l'autore dell'interessante e attuale libro "L'innovazione a colori: una mappa della globalizzazione". Dottor Panzarani, la globalizzazione, che al giorno d'oggi arriva dappertutto e coinvolge tutti, favorisce o sfavorisce l'Italia?

"Purtroppo, a differenza di alcuni grandi paesi emergenti, come ad esempio l'India e in parte la Cina, noi non siamo in grado di fare dei grandi balzi in avanti sul versante tecnologico. In questo campo non possiamo competere naturalmente nemmeno col Mit (Massachusetts Institute of Technology) americano. In ogni caso, l'India produce 200.000 ingegneri all'anno e la Cina altri 170.000. A questi livelli ovviamente non possiamo competere. Ritengo, quindi, che sia meglio puntare sulle nostra capacità, quelle in cui siamo forti e per certi versi unici. Tutto quello che è turismo e beni culturali ci appartiene in modo quasi naturale, è anche vero perô che dobbiamo creare un sistema in grado di promuovere efficacemente queste nostre eccellenze. La parte più difficile di questa sfida? È senz'altro quella delle infrastrutture che, per di più, hanno dei costi molto alti. L'autostrada Salerno-Reggio Calabria è in costruzione da 52 anni. Non sappiamo che fine farà l'Alitalia. Le nostre ferrovie sono obsolete. Per creare un sistema efficace e raggiungibile dobbiamo concentrarci anche su questo altrimenti rischiamo di diventare "belli e impossibili", da ammirare ma anche da guardare da lontano.

La globalizzazione, secondo Roberto Panzarani, è solo un processo di omologazione o è anche un vissuto originale da comunicare ad altri da noi? Come si fa a proteggere sia il vissuto originale delle diverse comunità e l'ambiente di cui fanno parte, la cui salute e salubrità è imprescindibile per lo sviluppo delle attività umane?

"La globalizzazione da una parte omologa, ma dall'altra "invita" i paesi, le regione e le città a presentare al mondo intero le loro peculiarità e specializzazioni. Noi italiani abbiamo un vantaggio incomparabile nei confronti di altri popoli proprio a causa della ricchezza del nostro vissuto storico e sociale. Dobbiamo, quindi, creare e ricreare ricchezza proprio a partire dai nostri tesori, che sono quelli artistici e quelli paesaggistici. Il gusto dell'invenzione, insomma, e quello concreto della nostra terra. Dobbiamo proteggerli e valorizzarli entrambi seguendo gli standard attuali, che sono molto esigenti in questo campo".

Il tema del vissuto originale veicola l'altro tema, quello delle pluriappartenenze. C'è molta Italia anche fuori dall'Italia, e quindi italicità. Gli italiani all'estero e gli oriundi spesso sono molto ben integrati nel paese in cui vivono e i loro legami con l'Italia potrebbero diventare sporadici. Com'è possibile coinvolgere in una rete fitta e unita i circa 250 milioni di italici nel mondo (secondo la stima di "Globus et Locus")  sparsi nel mondo?

"L'idea - ma so che il dottor Bassetti preferirebbe chiamarla: il fatto- dell'italicità è bellissima e attualissima. Conosco bene, per averle praticate, varie comunità all'estero italiane. Chi ha successo, e oggi sono molti, fra gli italici è interessato ad agire all'interno della sua attuale società di appartenenza, non vuole più distinguersi. Credo, quindi, che con gli italici bisognerebbe dialogare in modo diverso e nuovo. L'approccio ad esempio di Rai International a queste nostre comunità distanti è stato completamente sbagliato. Anche un discorso di natura politica non è più attuale quando si prende contatto con comunità funzionali o di pratica attivissime e ben poco legate all'Italia per quel che concerne la nostra quotidianità politica. Andiamo, dunque, dagli italici, con un discorso pratico, un discorso di rete, di gusto e di valori attuali lasciando da parte la politica nazionale e certe derive ancestrali del nostro sentire comune!"

Intervista a cura di Sergio Roic (Globus et Locus) pubblicata il 12 giugno 2008 su News ITALIA PRESS 
 

L’italicità vista dagli studenti

La riflessione che segue, nasce dal lavoro in aula e dagli scritti sull'italicità degli studenti dei corsi in Sociologia della Comunicazione e Teorie e Pratiche del Giornalismo, tenuti dai prof. Giovanni Bechelloni e Riccardo Giumelli, presso l'Università La Sapienza di Roma e l'Università degli Studi di Firenze.

Cosa ne è risultato? Che consapevolezza hanno questi giovani? E’ un tema che riescono a contestualizzare oppure rimane distante? Si tratta in via definitiva di provare a fare il punto della situazione.

Capita spesso che nel momento in cui viene pronunciato in aula il termine italicità al posto di italianità, qualche naso cominci a storcersi. In parte le critiche iniziali degli studenti sono anche motivate, mosse dal sentimento di chi non comprende dove si vuole andare “a parare”. Il percorso è difficile, complesso: a volte trova appiglio nella sensibilità delle persone in grado di leggere i mutamenti della realtà, a volte sembra invece disturbare le coscienze più nichiliste o qualunquiste.

Ciononostante il risultato finale è sorprendente. Questi giovani universitari, a me pare, sembrano non solo capire questi concetti ma anche dare loro un posto nella realtà. Sono spesso in grado di contestualizzarli e di collocarli riflessivamente nel dinamismo degli eventi, nei percorsi di cambiamento che la globalizzazione pone e impone. “L’italicità –scrive uno di loro - diventa, allora, la fonte da cui deriva l’abilità nel costruire relazioni con gli altri e la via attraverso cui si può de-etnicizzare e relazionarsi con gli altri senza negarne le differenze, intraprendendo, invece, un dialogo interculturale”, e continua “ è per suo tramite, dunque, che si realizza una svolta adatta a promuovere relazioni comunicative tra i popoli e un’apertura agli ideali di libertà, democrazia e pace”.

Un altro studente si sofferma sull’idea post-nazionale dell’italicità: “emerge la consapevolezza di una svolta paradigmatica che intende lasciare dietro le idee etno-nazionaliste per aprirsi a prospettive globali, interdipendenti, post-nazionalizzate e post-moderne.”

E’ ben chiaro chi sono questi italici, quali sono le aggregazioni di persone che ne fanno parte, ma è anche chiaro che il concetto d’italicità sottolinea la centralità della coscienza e dei valori culturali nella costruzione dell’identità, altro punto molto importante. Valori culturali che si sono diffusi attraverso una diaspora dei localismi tipici delle tante identità urbane e regionali, una diaspora globale e cosmopolita che percorre il mondo in nome di valori (la fede cattolica, la sete di conoscenza, lo spirito d’avventura) e d’interessi (il denaro, il profitto) caratterizzati da una vocazione universale. E in tutto questo le identità cambiano, si modificano tanto che l’identità, nel nostro mondo glocale, è sempre meno un “dato” ed è invece sempre più un “processo”, costruito attraverso pratiche sociali che si realizzano in spazi sempre più numerosi ed estesi. Un altro studente scrive su questo tema che “le grandi diaspore post-nazionali e transnazionali - e in primo luogo quella degli italici - sono appunto fra queste risorse: sono reti transnazionali che attraversano il pianeta e lo interconnettono; hanno una natura glocal che consente loro di agire localmente e pensare globalmente; conoscono e praticano la differenza e sono quindi in grado di intermediare fra culture e popoli diversi. Gli italici, in particolare, conoscono e praticano la molteplicità delle appartenenze e delle lealtà.”

Una studentessa, in particolare, elenca tutta una serie di elementi distintivi dell’italicità: “il ruolo centrale della famiglia e dei rapporti famigliari nel tessuto dei rapporti sociali, un valore preminente rispetto alle appartenenze statuali e nazionali; i valori cristiani, cattolici, i valori dell’universalismo e del cosmopolitismo, che sono collegati al sentimento d’umanità; i valori di una concezione non economicistica dell’economia non separata da una visione etica della vita; il senso estetico e i valori del gusto e del bello visto non solo come patrimonio d’arte e di cultura, ma tradotto anche in stili di vita resi noti dai trionfi del made in Italy, scoperti e amati nei tempi più recenti da milioni di persone in tutto il mondo; i valori del lavoro piacevole e creativo, le secolari tradizioni artigianali spesso collocate ai confini dell’arte, le più recenti esperienze del design e dell’italian style incorporato nei prodotti; infine anche valori della genialità italica nel campo tecnologico”.

Per riassumere, l’identità italica viene qualificata dagli studenti in questo modo: un’identità mite (senza pretese egemoniche derivanti da tradizioni coloniali e imperiali); non risentita(come nel caso dei popoli che subiscono oppressioni e che si sentono umiliati); estetica (sensibile al valore universale della bellezza); affettiva (consapevole delle dimensioni profonde della vita umana, dei valori dei sentimenti quali si esprimono nell’esperienza della vita famigliare, nella simpatia intesa come sentire insieme); universalista (fondata sulla ricerca di valori universali e condivisi); cosmopolita( che si esprime nel desiderio di avere a che fare con l’altro, come apertura verso esperienze culturali divergenti, come abilità personale tipica italiana a farsi strada in altre culture e popolazioni attraverso l’ascolto, il guardare, il toccare, l’intuire e riflettere).

Lo spazio di questo articolo non mi permette di aggiungere quant’altro di interessante è stato scritto. Mi pare chiaro che i giovani rispondono bene ed è pertanto necessario continuare su questa strada, dove le aule universitarie diventano veri e propri (finalmente) centri di ricerca, di studio, di dibattito su tematiche come quella italica, che per crescere hanno certamente bisogno dell’aiuto di tutti.

Riccardo Giumelli
 

Indici di globalizzazione

Vi segnaliamo un interessante articolo di Chiara Battistoni pubblicato sul numero di maggio-giugno 2008 dell'edizione italiana della rivista Finance Business Review.

Partendo dal confronto tra due importanti indici di globalizzazione, l'indice Kof 2008 dell'Eth di Zurigo e il Networked Readiness Index (NRD) del World Economic Forum, l'autrice propone un'interessante interpretazione in chiave glocal dei dati evidenziati dagli indici.

Indici a confronto. Uno spiraglio di speranza - Finance Business Review Italy- maggio/giugno 2008

 Sito web: www.edizionibig.it
 

La recensione del mese

Adam Smith a Pechino, Giovanni Arrighi, Feltrinelli, Milano 2008

Con approfondito bagaglio di conoscenze storiche e l'acuto talento analitico che gli è proprio, l'autore affronta in tutta la sua complessità, il tema della straordinaria ascesa della Cina al ruolo di grande potenza economica.

Tesi di fondo di questo studio è l'irriducibile specificità di un processo di sviluppo, fondato sulla fedeltà a una radicata tradizione, che contrariamente all'interpretazione di molti osservatori, non si traduce in un'acritica conversione al neo liberalismo ma al contrario è il risultato, con i vantaggi che questo ha comportato sul piano della stabilità sociale e dell' efficienza produttiva, della messa in opera di un "modello non occidentale dello sviluppo capitalista".

In questa prospettiva, particolare attenzione viene rivolta al contributo, cruciale per il progresso del paese, rappresentato dalla mobilitazione di massa del mondo rurale, componente fondamentale della società cinese. Una scelta questa, obbligata, per portare avanti una strategia produttiva fondata sulla priorità attribuita all'impiego di risorse umane nella promozione della crescita economica.

La politica di mobilitazione delle campagne si sviluppa, a cavallo tra gli anni '70 e 80, rompendo con il sistema di rigidi controlli che aveva confinato il mondo rurale in condizioni di arretratezza e ristagno. A partire da questo momento prende slancio il processo di riallocazione dell'eccesso di mano d'opera delle campagne in attività industriali e commerciali a forte intensità di lavoro, organizzato nel quadro delle imprese di municipalità e villaggi. Sono queste organizzazioni collettive diffuse sul territorio, il cui tratto operativo risulta tipicamente glocal (o di raccordo tra il globale e il locale) a stabilire una fitta rete di sbocco sui mercati situati spesso ben oltre i confini nazionali, imprimendo uno straordinario dinamismo all'economia cinese. A dare impulso alla dinamica produttiva, riducendo i margini di disoccupazione, entra così in gioco l'enorme massa costituita dalla popolazione contadina, superiore per entità numerica all'intera popolazione dell'Europa.

Tra il 1978 e il 2004, con la crescita da 26 a 176 milioni della consistenza della forza lavoro di estrazione rurale impiegata in questi organismi, si consolida un sistema produttivo decentrato e diffuso, fondato sulla piccola e piccolissima impresa che potrebbe rivelarsi nell' opinione dell'autore il principale fattore di progresso della Cina. L'interrogativo di fondo riguarda la capacità del governo cinese di portare avanti anche nei prossimi anni, il processo di sviluppo economico intrapreso con tanto successo finora. Quanto il pragmatismo caratteristico della politica ufficiale del post maoismo possa influire nel contenere le tensioni ritenute da molti osservatori inevitabili in una fase di più avanzata e così accelerata modernizzazione, è difficile dire.

Sintomi di difficoltà sul piano della stabilità sociale, dovute alle crescenti disparità nella distribuzione del reddito e determinate dall' avvento di una classe capitalistica in posizione di crescente influenza politica economica del paese, hanno cominciato a manifestarsi.
 
Le risposte a questa situazione in un ottica che tenga conto del processo in corso in tutte le sue dimensioni si possono ridurre a due ipotesi. Da un lato vi è chi sottolinea, e per l'autore si tratta della soluzione più auspicabile, la capacità del regime, dovuta alle sue istituzioni passate e alla sua cultura politica, di far prevalere una linea di continuità con il corso seguito finora. Dall' altro vi è chi prevede un'evoluzione della Cina simile a quello degli altri paesi dell'Asia orientale - Giappone, Corea del Sud, Taiwan - allineati alle esperienze di sviluppo  di stampo americano e europeo. Resta aperto in ambedue i casi, e manca una risposta in proposito, il rischio che a differenza di quanto avvenuto finora, l'evoluzione del paese assuma caratteri di violenza, provocando una serie di contraccolpi sugli equilibri esistenti, ai diversi livelli globale, nazionale e subnazionale.   

Recensione a cura di Paolo Calzini, docente di Studi Europei alla Johns Hopkins University

  

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