Globus et Locus incontra gli italici di Toronto e San Francisco
Nelle scorse settimane a Toronto e a San Francisco si sono tenuti due incontri sull’italicità. L’incontro di Toronto, organizzato dalla locale Camera di Commercio Italiana alla presenza del presidente, Nivo Angelone, e di altri personaggi di rilievo, fra i quali il noto sociologo Derrick de Kerckhove e il presidente di Globus et Locus Piero Bassetti, è stato particolarmente significativo e gli argomenti di discussione che ne sono scaturiti, sono stati ripresi dal "Corriere Canadese".
L’esperienza di San Francisco, altrettanto interessante, ha riunito diversi esponenti dell’importante e attiva comunità italica, come Romana Bracco presidente del Comites locale e il console Roberto Falaschi.
Nonostante le inevitabili differenze di approccio all’italicità emerse nei due diversi contesti, in entrambi i casi la proposta italica è stata giudicata di grande interesse. A Toronto, dove la società è segnata dalla forte dialettica fra anglocanadesi e francocanadesi, le problematiche e le aspirazioni della minoranza di origini italiane rischiano di essere misconosciute. La consapevolezza di una dimensione italica può risultare allora decisiva per il riconoscimento di un’identità italocanadese.
Per contro, presso una comunità affermata come quella di San Francisco, che sente profondamente la propria identità americana ma è allo stesso tempo coinvolta nelle vicende italiane, la proposta italica, in un contesto di pluri-appartenenze tipico della società moderna, non collide in alcun modo né con l’identità italiana né con quella americana.
Il compito di Globus et Locus è quello di spiegare con chiarezza agli italici la natura concreta della loro appartenenza, che può essere una somma di identità non contrastanti fra di loro: oggi si può essere abruzzesi, canadesi e italici allo stesso tempo, come sottolinea Antonio D’Alfonso, editore italico canadese che aveva intuito l’importanza dell’italicità già negli anni ’90. L’appartenenza italica consente di riconoscere e ritrovare dentro se stessi valori, modi d’essere, usi e costumi che ci identificano e che i membri delle comunità già praticano. Unirsi per poter trarre dei vantaggi è ovviamente lo scopo di questa rete capillare che dovrebbe inglobare gli italici in ogni angolo del pianeta: "È evidente" ha sottolineato nel corso degli incontri Piero Bassetti "che l'unità del mondo non si fa più come un tempo ma in modo dinamico e moderno. Da questo processo di relazione scaturisce un senso di appartenenza e di conseguenza un arricchimento, un grande vantaggio per tutti".
Commenti: Paina, D'Alfonso, Roi
Abbiamo chiesto ad alcuni dei partecipanti all'incontro di Toronto quali sono state le loro reazioni rispetto agli spunti e alle riflessioni emerse nel dibattito sull’italicità. Abbiamo raccolto le impressioni di Corrado Paina, segretario generale della Camera di Commercio Italiana di Toronto, Antonio D’Alfonso, scrittore e fondatore della casa editrice Guernica, Pierluigi Roi, senior editor di OMNI TV
G&L: l’italicità non è un logo, non è un marchio, non è qualcosa che si vende o si compra, non è neppure un’imposizione o uno status giuridico. Eppure, dovunque se ne parli, sembra riscuotere crescente successo. Quali sono state le sue impressioni sul recente incontro di Toronto e sulla discussione che si è sviluppata in merito?
Paina:Credo che il discorso dell’italicità prosegua grazie agli interventi ed all’energia di molti elementi delle comunità all’estero. La visita di Bassetti va inquadrata non come un momento lideristico ma come un’occasione per ritrovarsi. Le forze vanno aggregate, le istanze accolte, le aspirazioni soddisfatte. Certamente la voluta mancanza progettuale deve riunire ad un certo punto i fermenti, quindi va, non dico ideoligizzata, ma certamente organizzata per superare la fase di registrazione dei fermenti. Dall’archiviazione si deve passare all’operatività. Bassetti non va visto come chi da’ il via ma come chi porta la borraccia a chi sta correndo da solo. Credo che questo sia il ruolo, notevolmente apprezzato, di Bassetti. Per questo la sua venuta a Toronto è stata entusiasmante. Non era il solito politico che parlava o prometteva.
G&L: l'appartenenza italica comincia a essere riconosciuta e abbracciata come una delle identità emergenti nelle comunità di origini italiane all’estero. Crede che una volontà di “stringere le maglie” fra italici e di riconoscersi come tali stia emergendo come fenomeno concreto o, per quel che concerne l’italicità, si può parlare ancora di una fase interlocutoria di autoriconoscimento e di curiosità?
D’Alfonso: È vero, in questo momento c'è grande attenzione per tutto ciò che rappresenta la realtà italiana fuori dall'Italia. Tuttavia, non sono sicuro che ciò significhi necessariamente attenzione e comprensione dell'idea italica. Per gli italiani, l’italicità è attuale solo quando si parla di esportare i loro prodotti. Esiste invece molto meno interesse a importare ciò si fa altrove. Una reciprocità di rapporti tra l'Italia e le realtà italiche sarebbe l’ideale, ma siamo ancora lontani da quest’ideale. Sono più di trent’anni che sto ponendo l'accento sull’importanza del vantaggio di una cultura trans-nazionale. Tuttavia, per la maggioranza dei miei interlocutori, questo vantaggio non esiste. Il fatto che una cultura italica di valore possa nascere e di fatto nasca fuori d’Italia, è una cosa ancora molto difficile da capire per chi vive in Italia. Se invece si guardasse con occhi diversi a ciò che l'italicità produce, come pensiero e sensibilità, nel mondo (ricordiamo che ci sono più di 60 milioni di italici in America), ne avremmo un vantaggio culturale enorme.
Oggi siamo in grado di scorgere le strade che portano all’italicità, ma vederle, accorgersi di esse non significa ancora arrivare a coglierle, non significa essere arrivati alla meta.
G&L:in che modo é possibile trasmettere l’idea del vantaggio di un’appartenenza simile e il valore aggiunto che l’italicità apporta ai suoi membri?
Roi: Uno degli aspetti più importanti dell’italicità consiste nel capire quali siano i bisogni degli italici e soddisfarli. Un marchio comune e un business condiviso possono essere degli ottimi strumenti per diffondere un certo tipo di cultura che accomuna milioni di italici nel mondo. Ed è il web il veicolo essenziale e più efficiente per trasmettere questo tipo di discorso. Innanzitutto perché riesce ad accomunare l’intero globo, ma anche perché, trattandosi di un modello di interazione eminentemente democratico, riesce a dare spazio e rappresentazione alle diverse realtà italiche. In questo senso, l’italicità è un my space, non è un concetto univoco, in quanto si declina concretamente nei diversi contesti locali, ma esistono dei comuni denominatori che identificano tutte le persone che vivono l’italicità nel mondo, e anche in Italia.
La recensione del mese
"Pensare l'efficacia in Cina e in Occidente", F. Jullien, Ed. Laterza, 2006
Il disgregarsi continuo e "naturale" di una concezione del mondo diviso in stati nazionali sovrani, percorso da confini e da frontiere burocratiche, pone l'attenzione su nuove identità che mano a mano emergono e si rendono più visibili. La globalizzazione sta ridefinendo il mondo, sempre più concepito come formato da civiltà che necessariamente devono incontrarsi e gestire gli eventuali endemici conflitti.
Il libro del filosofo, sinologo F. Jullien si inserisce opportunamente nel dibattito mondiale sui processi che stanno modificando il globo, tuttavia con uno sguardo differente, in certi tratti illuminante, capace di tracciar un nuovo solco nella retorica facilistica e spesso ridondante di tale discussione.
Jullien esplora il pensiero cinese ma il suo scopo profondo è raccontare l'identità occidentale attraverso un processo di distacco, di allontanamento in grado di far riflettere su ciò che diamo per scontato. "La Cina ci permette di prendere le distanze dal pensiero da cui proveniamo, di rompere con le sue filiazioni,- scrive il filosofo - di interrogarlo dal di fuori e quindi interrogarlo nelle sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato." E' pertanto un libro sui miti occidentali, sui suoi eroi, ma soprattutto sull'idea che la Cina pone il dubbio della loro universalità.
L'efficacia, intesa come azione nel mondo, è in questo caso la discriminante, oggetto di analisi di due civiltà ancora molto lontane. L'archetipo del pensiero occidentale si fonda sulla costruzione di una modellizzazione, di una teoria e della sua applicazione, attraverso una sperimentazione sempre più efficace delle tecniche in grado di garantire il minor margine di errore. Per Clausewitz quel margine di errore rappresenta l'attrito, cioè la guerra, che appare inevitabile. Si esalta il rapporto mezzo-fine, la costruzione dell'obiettivo e dell'impegno/ingegno umano per raggiungerlo.
Il pensiero cinese non riconosce l'azione in questi termini, ma sembra piuttosto celebrare la "non-azione", intesa non come disimpegno, indifferenza o passività ma come riconoscimento che l'intervento umano può solo accompagnare la situazione, facilitarne gli sviluppi valutandone i "fattori portanti", in un contesto ove tutto scorre in maniera normale ed armoniosa. Non esistono obbiettivi, esistono solo processi, "la trasformazione non si vede, se ne vedono solo i risultati", allo stesso modo in cui non ci si accorge della crescita di una pianta, impercettibilmente graduale.
La globalizzazione crea inevitabilmente forme ibride di civiltà. La Cina, a partire dall'occupazione coloniale britannica, ha riconosciuto la potenza della tecnologia e della razionalità occidentale, mentre l'occidente - nel clamore del suo dominio - non potrà rimanere indifferente agli sviluppi "calibrati" del pensiero cinese, a partire dal quale urge sempre di più una riflessione profonda sulla propria identità e sull'incontro con l'altro.
Recensione a cura di Riccardo Giumelli