La crisi greca. Una cartina di tornasole delle sfide glocali
La crisi greca - il cui esito futuro, ha scritto Tommaso Padoa-Schioppa, «trasformerà l’Unione europea» - ci appare la manifestazione acuta di fenomeni familiari al pensiero glocalista. Nel dibattito pubblico pochi hanno rilevato che la data dell’11 febbraio, quando il Consiglio europeo ha espresso, nei fatti, la convinzione che «la Grecia non è più unica sovrana in casa sua» (sempre Padoa-Schioppa), era appuntata nell’agenda dei leader europei con un diverso ordine del giorno. Avrebbe dovuto infatti tenersi un briefing sullo stato dell’arte della strategia di sviluppo Europa 2020, che a breve rimpiazzerà la poco fortunata Strategia di Lisbona.
A uno sguardo attento, il cambio di programma sollecita almeno due riflessioni. La prima lega la vicenda greca alla tendenza di fondo, marcatamente glocal, che vede slittare la sovranità statuale in più direzioni: in alto, cioè verso l’Unione europea, che prende oggi l’iniziativa «in prima persona» entrando, per così dire, nei confini greci; ma anche in basso, verso entità subnazionali come le Regioni; e in orizzontale, verso i mercati finanziari, le imprese globali, le reti.
La seconda riflessione muove dalla constatazione che la strategia Europa 2020 sarà, insieme alla riforma della Politica europea di Coesione, il terreno sul quale misurare la capacità dell’UE di porsi o meno «in tendenza» con questi processi profondi. Il 3 marzo è stata ufficialmente lanciata la Strategia (al termine di una consultazione a tappe forzate promossa dalla Commissione) e nei prossimi mesi, dopo il Consiglio europeo di primavera, si giocherà una partita molto rilevante sulla definizione dei quadri applicativi nazionali. Solo allora si comprenderà se esiste lo spazio per un approccio bottom-up, ovvero per una governance europea che coinvolga tanto la dimensione regionale e macroregionale quanto la dimensione funzionale: sistemi a rete per l’energia e i trasporti, multiutilities, clusters di piccole e medie imprese (ovvero tutti quei «soggetti» che, come avviene per le popolazioni del mondo glocalizzato, valicano i confini e le prossimità territoriali).
In caso contrario, difficilmente si potranno conseguire gli ambiziosi obiettivi dell’orizzonte 2020: «growth based on knowledge and innovation; an inclusive high employment society; greener growth».
Da un lato, i limitati margini di manovra consentiti dalle compatibilità finanziarie (negli ultimi due anni è andato in fumo il risanamento di due decenni: deficit medio EU pari al 7% del PIL, indebitamento superiore all’80%); dall’altro, il combinato disposto di invecchiamento della popolazione e rallentamento della produttività: questa tenaglia sollecita l’Europa ad una reazione «per evitare il declino», come afferma la stessa Commissione.
Certamente non si uscirà dalla crisi con una struttura economica identica alla precedente. Le stesse componenti della crescita basata sulla conoscenza e sull’innovazione indicate dal documento EU2020 poggiano su presupposti impietosi: la sola Google spende per Ricerca & Sviluppo nel settore delle tecnologie dell’informazione più di quanto non faccia la UE nel 7° programma quadro. Da qui l’insistenza della Commissione sulla necessità di moltiplicare i centri universitari europei e facilitare la traducibilità pratica dei risultati della ricerca per il sistema delle piccole e medie imprese, anche tramite partenariati pubblico-privato. Al fondo della strategia vi è un’opera di convincimento verso gli stati membri sul carattere interdipendente delle economie UE (per ogni 1.000 euro di crescita in uno stato, circa 200 si diffondono ad altri attraverso gli scambi intra-UE), da cui discende il tentativo di incentivare il coordinamento interstatuale ma anche «l’interdipendenza tra i diversi livelli di intervento (UE, Stati membri, regioni, parti sociali, ovvero la governance multilivello)».
Ecco tornare, in conclusione, il tema di apertura: ovvero il problema del rapporto tra «fattore territorio» e quelli che Saskia Sassen ha definito assemblaggi: sistemi altamente specializzati, estesi globalmente su geografie trans-locali pur avendo sede nelle impostazioni istituzionali e nazionali, «frammenti di una nuova realtà in divenire» . Essi rimandano al legame tra una dimensione radicata, territoriale - che permane - ed una dimensione che poggia sulla razionalità funzionale: il destino della governance europea nei prossimi anni dipenderà probabilmente dalla capacità di affrontare il futuro situandosi all’altezza di queste sfide.
Francesco Samorè
Dipartimento di Scienze della Storia, Università degli Studi di Milano
Convegno Roma
Una sintesi degli spunti emersi dal convegno "Il mondo si glocalizza" anticipato nella scorsa newsletter.Un evento, promosso da CeSPI, Globus et Locus e IILA, che ha visto un'ampia partecipazione di pubblico.
Il tema dell’incontro, partendo dall’assunto che viviamo ormai in un mondo glocalizzato, è stato l’impatto del glocalismo sui nuovi modelli di governance, con particolare riferimento ai governi subnazionali. L’importanza economico-sociale, e più direttamente politica, di questi ultimi, infatti, si è accresciuta per effetto della recente crisi globale, che ha accentuato le tendenze in atto verso una crescente glocalizzazione.
Sulla base di questa premessa condivisa, i relatori presenti all’incontro, importanti esponenti del mondo politico e accademico, hanno dato vita a un dibattito finalizzato a fornire alle autorità subnazionali spunti e riflessioni per una nuova lettura del territorio, quale nodo di reti transregionali e transnazionali.
La prima sessione del seminario è stata introdotta e presieduta dall’On. Vincenzo Scotti, Sottosegretario agli Esteri, il quale nel suo intervento ha sottolineato l’importanza del riconoscimento delle istanze del glocalismo e la necessità di prendere atto dei profondi mutamenti negli equilibri economici e politici avvenuti con la glocalizzazione, dei quali parla, fra l’altro, anche nel suo recente libro “L'Italia corta. Le miniere del Mediterraneo”. L’On. Scotti ha ricordato la crescente importanza che stanno assumendo le autonomie “territoriali” e ha espressamente segnalato come sia stata acquisita anche in ambienti istituzionali la consapevolezza della trasformazione dei territori in reti, con la conseguente maturazione di una sensibilità più apertamente glocalista.
Una visione che, secondo Piero Bassetti, Presidente di Globus et Locus, intervenuto subito dopo l’On. Scotti per illustrare il concetto di glocalismo, dovrebbe accompagnarsi alla consapevolezza che ormai non sono più le regioni tradizionalmente intese ad essere protagoniste delle prossime sfide, bensì le macroregioni, concepite come estensione di attività e competenze comuni in possibili spazi transnazionali di riferimento “a geometria variabile” in relazione alle diverse possibili funzioni. In questo nuovo scenario, Bassetti ha sottolineato come sia fondamentale poter disporre di modelli formativi da proporre alla classe dirigente, la quale altrimenti difficilmente sarà in grado di gestire i cambiamenti, come dimostrano i problemi connessi con la delocalizzazione industriale e le derive della crisi della finanza. Le classi dirigenti e i decisori politici hanno bisogno di un sistema di valori e di una cultura politica che incorpori i dati e le riflessioni più recenti sulla globalizzazione, sulla transnazionalità, sulla necessità di forme di democrazia multilivello (dal locale al globale) e multiattore (attori territoriali e funzionali).
Il discorso si è poi sviluppato attorno alle nuove mobilità e la svolta epocale legata al fatto di vivere a tempo e spazio zero, producendo una mobilità diffusa, dei segni, delle persone e delle cose. Ciò ha portato alla nascita di nuovi gruppi, comunità, mercati, costituences globali e locali che esprimono interessi a livelli nuovi e che richiedono organizzazioni, strutture e regole diverse da quelle in uso nella statualità nazionale.
Il prof. Mario Volpe dell'Università di Venezia, Ca’ Foscari, ha tenuto una relazione sul tema della “internazionalizzazione dei territori”, sottolineando come l’apertura internazionale dei soggetti che operano in ambito locale, in primis le imprese, sia il risultato di un profondo cambiamento di strategie. L'attivazione di relazioni, soprattutto nelle fasi produttive, con territori lontani è infatti motivata dalla necessità di ricercare fattori competitivi su una scala più ampia. Se i soggetti economici sono intrinsecamente legati ai sistemi locali, come è il caso delle reti di piccole e medie imprese, ne deriva una spinta alla internazionalizzazione dei territori. Dopo aver illustrato indicatori e misure relativi alle regioni italiane, il Prof. Volpe ha accennato ad un possibile ruolo della politica economica sub-nazionale per favorire il posizionamento dei diversi territori nelle reti produttive internazionali.
Sul tema della “Politica estera e paradiplomazia in Italia” è intervenuto José Luis Rhi-Sausi, direttore del CeSPI, il quale ha articolato il suo intervento attorno al tema del ruolo giocato in materia di relazioni internazionali dalla paradiplomazia, intesa come l’insieme di azioni esercitate dai governi locali e regionali all’esterno dei confini nazionali. Dopo una premessa sul carattere universalistico e aperto della paradiplomazia in Italia, sviluppatasi a partire dagli anni ’90 in risposta ai conflitti balcanici e sostenuta da pratiche come i gemellaggi e la cooperazione transfrontaliera, Rhi-Sausi ha richiamato l’attenzione sul ruolo attuale della cooperazione decentrata allo sviluppo, soffermandosi in particolare sui nodi critici che la caratterizzano e sulle prospettive offerte dalla recente riforma dell’organizzazione del Ministero degli Affari Esteri.
La seconda parte del dibattito si è sviluppata attorno alla Tavola Rotonda “Le prospettive dell’azione internazionale dei governi subnazionali italiani”, presieduta dall’Amb. Paolo Bruni, Segretario Generale dell’IILA. In questa seconda parte sono intervenuti: Vincenzo Maria Menna, Segretario Generale AICCRE, Gildo Baraldi, Direttore dell’OICS; Ermanno Boccalari, Dirigente Ufficio Cooperazione Internazionale, Regione Lombardia; Fabrizio Pizzanelli, Plural, Centro Studi Europeo e Raffaele Farella, Dirigente con incarico speciale per l'internazionalizzazione e la promozione estera, Provincia autonoma di Trento.
L’incontro si è concluso con l’auspicio, da parte dei relatori, di potersi incontrare di nuovo in futuro per riprendere le riflessioni condivise durante il seminario.
Intervento Piero Bassetti_Cosa è il glocalismo
A Tempi moderni si parla di rapporti Ticino-Italia
Il futuro del Ticino e i rapporti con l'Italia. Sarà questo il tema al centro della prossima puntata, in onda il 18 marzo, della trasmissione di TeleTicino "Tempi moderni"(www.ticinonews.ch).
La trasmissione ospiterà personaggi di spicco del mondo politico e culturale ticinese e non, come il Consigliere di Stato Luigi Pedrazzini, l'architetto Mario Botta e il presidente di Globus et Locus, Piero Bassetti.
Sempre al tema dei rapporti transfrontalieri, con riferimento specifico all'area dell'Insubria, è stata dedicata l'intervista pubblicata sul settimanale svizzero "Azione", che è qui allegata:
A che punto siamo con l'Insubria
Le piemontesi glocal d'Argentina
Un percorso attraverso le pieghe della memoria. Storie di donne, migrazioni e legami con la regione di origine.
In tema di nuove identità e nuove mobilità generate con la glocalizzazione, una questione di particolare interesse è quella del rapporto, per chi è migrato altrove, con la propria regione di origine.
Viene da chiedersi se quest’ultima venga concepita come un punto di riferimento a livello identitario o se invece sia in qualche misura ridimensionata in nome di un atteggiamento più apertamente glocal, in grado di trascendere i confini territorialmente definiti.
Un’analisi interessante per rispondere a questo quesito è offerta da una recente ricerca del Centro Altreitalie, la struttura diretta da Maddalena Tirabassi. Secondo quanto emerge dalla ricerca, dal titolo “I MOTORI DELLA MEMORIA - Le piemontesi in Argentina”, (pubblicata di recente da Rosenberg&Sellier, Torino, 2010) mentre le prime generazioni di migranti sentono ancora molto forte l’identificazione con la propria regione di origine (nel caso di questo studio, il Piemonte), quelle successive tendono invece a identificarsi di più in un insieme di valori più glocal, in questo caso più italico.
Sono cioè i valori e lo stile di vita propri dell’italicità a venir sentiti come propri e a coesistere in identità plurime, inserite in un mondo globalizzato.
L'indagine nasce in risposta all’esigenza, manifestata da una serie di donne argentine di origine piemontese, di veder scritte le loro storie. Sono donne attive nel mondo dell'associazionismo etnico che hanno una piena consapevolezza delle loro radici e che lavorano per il recupero della memoria della cultura d’origine. La loro richiesta era dettata dal desiderio di capire la propria identità culturale di origine etnica, ma anche dalla denuncia di un vuoto storiografico, dal momento che la storia delle donne immigrate in Argentina è una delle tante storie che ancora non è stata scritta.
Il testo cerca di postulare, se non di dare risposte, a una serie di questioni che riguardo il significato dell’appartenenza etnica oggi: nel caso della ricerca, chi sono, dove sono, cosa fanno oggi le donne piemontesi e di discendenza piemontese che vivono in Argentina; che rapporti hanno mantenuto con il paese di origine; come e cosa si trasmette della memoria delle origini e attraverso le generazioni; che influenza ha l’immagine dell’Italia nel mondo. Una ricerca che scava nelle nicchie, nelle pieghe della memoria, ne studia i meccanismi attraverso gli strumenti che le stesse protagoniste hanno messo a disposizione.
Quello che doveva essere un viaggio nella memoria per ricostruire una storia di genere che rischiava di andare dimenticata, ha rivelato inaspettate vie di ricerca per affrontare la complessa questione delle identità plurime derivate dalle esperienze di mobilità. Ciò che emerge infatti con chiarezza, oltre alla pluralità delle appartenenze, di identità, è il loro continuo mutare, non necessariamente in senso lineare.
Un case study, quello piemontese, che meriterebbe di essere esteso ad altre realtà regionali e/o funzionali, anche per la definizione di policies che si indirizzino al potenziale bacino di utenza composto dalle decine di milioni di italici sparsi nel mondo.
La recensione del mese
"Un paese troppo lungo" di Giorgio Ruffolo, Einaudi, Torino, 2009
Che in Italia si sia giunti ad un’unità tardiva è un fatto risaputo, che si siano
perse delle occasioni in precedenza di potentati ed eserciti provenienti da Nord lo è già un po’ meno, ma che una delle grandi occasioni per unire la penisola sarebbe potuta venire dal Sud, in particolare da Federico II, è un fatto quasi totalmente sconosciuto. È da questo evento mancato che molte delle riflessioni di Giorgio Ruffolo prendono piede e si dipanano lungo tutto il testo, accompagnate da uno stile asciutto, diretto, a cavallo tra storia e narrazione, che già aveva caratterizzato il suo magnifico precedente “Quando l’Italia era una superpotenza”. “Un paese troppo lungo” - qualcun altro invece lo ha definito troppo corto - è il desiderio e la volontà di riannodare i fili della memoria italica, nell’infinità ricerca inquieta dei perché.
Gli Arabi si arresero ben presto all’idea di poter fare di quella penisola allungata, troppo lunga, nel mezzo del Mediterraneo un territorio unicamente governato. E seppure delimitato a Nord dalla catena montuosa delle Alpi, troppi gli ostacoli che si ponevano e si sovrapponevano alle ambizioni di conquista di monarchi e sultani. Così tutti coloro i quali tentarono di unificare l’Italia sulla propria immagine non vi riuscirono, ma addirittura ne aggravarono la disgregazione. L’Italia rimase sempre luogo di luoghi, territorio suddiviso nei vari poteri locali, spesso dediti a darsi battaglia a seconda delle circostanze, piuttosto che a cooperare.
Le questioni di fondo che l’autore pone sono tre. Innanzitutto quella meridionale, che fa appello anche a quella settentrionale. Due anime diverse del paese che non sono mai riuscite a convivere serenamente. Uscite ancor più distanti dal processo di unificazione, determinato da un Risorgimento, come Ruffolo lo chiama, freddo, cioè quello di Cavour e dei Savoia e delle loro trame diplomatiche con Napoleone III e le altre potenze straniere, contrapposto a quello caldo, appassionato, che scaturisce dal desiderio di autodeterminazione e da vita ai moti insurrezionali: dalle giornate di Milano a quelle di Brescia, dalla Repubblica Partenopea a quella Romana, fino alle insurrezioni veneziane condotte da Daniele Manin. Insomma, due modi di vedere le spinte risorgimentali, delle quale è quella più cauta e fredda a prevalere, distante dal popolo, soprattutto da quello meridionale, con il quale dovrà confrontarsi ben presto. Sono le guerre al brigantaggio, violente, brutali, un assaggio di guerra civile, ancora poco comprese e studiate, a mio avviso, a dare origine ad una frattura insanabile ed irreversibile. Il potere sabaudo è visto né più né meno come una potenza straniera che gestisce il monopolio della violenza nei territori del Sud, imponendo nuove e gravose tasse, la leva obbligatoria e la scuola per tutti. L’Italia era fatta, ma più a parole che nei fatti. Non solo l’alba della nazione Italia si levò sulle premesse sbagliate ma anche i tentativi nazionalisti e patriottismi successivi - e questa è la seconda questione - non fecero altro che peggiorare la situazione, spingendo il nuovo Stato “nel massacro di una guerra mondiale e nell’avventura retorica e populista del fascismo. La nazione di Mussolini è l’antitesi della patria mazziniana”. Infine, terza questione, il condizionamento della Chiesa cattolica allo Stato Italiano, perché lo si voglia riconoscere o meno, si tratta di due poteri che esercitano la loro sovranità nello stesso territorio e che hanno richiesto continui compromessi per eliminare gli ostacoli alla formazione di uno Stato unitario.
Ma quello di Ruffolo non è solo uno sguardo sul passato, tutt’altro. Il desiderio che emerge dal testo è di una nuova ripartenza, se non addirittura della necessità di uno scatto. Un passo indietro per farne due più decisi in avanti. L’Italia di oggi è deludente, il progetto di costruzione dell’Italia Unita appare malamente riuscito, la disgregazione è sempre più allarmante in uno sfondo caratterizzato da un nord incantato da un messaggio “populista e privatista”; e un Mezzogiorno «ormai sequestrato dalle mafie». È per questo che Ruffolo auspica “un governo del Sud, federato a quello settentrionale, sotto il controllo di un' Assemblea democratica che selezioni una nuova classe dirigente meridionale, e una banca del Risanamento e dello Sviluppo sottratta a ogni pressione tangentizia e clientelare”. Niente poi così di veramente nuovo e radicale. È lo stesso Giorgio Ruffolo a invocare gli ideali di Dorso e Salvemini, uniti all' idea di un' «utopia concreta» in grado di vincere gli immobilismi.
Recensione a cura di Riccardo Giumelli
Docente di Teoria e pratica della comunicazione, Facoltà di Scienze Politiche Cesare Alfieri, Università di Firenze
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