Editoriale
Nei giorni scorsi l’Europa ha festeggiato i cinquant’anni dalla sua nascita, sancita dai Trattati di Roma. L’idea di formare un’Unione Europea sulla base di comuni esperienze � la prima di queste esperienze essendo stata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) � è stata la prima pietra o, meglio, la prima funzione sulla quale è stata ridisegnata un’Europa che, col passare degli anni, ha abbracciato sempre di più il modello dell’arcipelago di istituzioni funzionali in grado di compartecipare e condividere il processo decisionale in un'ottica glocale.
Con l’Unione Europea si è sviluppata un’idea efficace di governance, ovvero di governo non centralizzato che si appoggia agli organismi decentrati, al principio di sussidiarietà, alle eccellenze della società civile (Regioni, Città, Università, ecc.). Ma alla veneranda età di cinquant’anni, la complessa architettura di governance europea comincia a scricchiolare. Per andare avanti, l’UE non deve avere paura di affrontare le riforme necessarie e di creare nuove istituzioni in grado di regolarle. Di fronte a questioni di rilevanza cruciale per la comunità globale, come il cambiamento climatico e il risparmio energetico, proprio l´Unione Europea rappresenta il soggetto ideale di una politica di contrasto, come è stato sottolineato da Ulrich Beck in un suo recente articolo secondo cui “una risoluta politica ambientale della UE potrebbe effettivamente introdurre un cambiamento nell´auto-comprensione dell´Occidente.”
Per poter continuare a guardare all’Europa come a un laboratorio di ciò che il mondo potrà essere in futuro, è innegabile che bisognerà rafforzare la sua capacità di innovazione istituzionale in grado di tenere il passo dei tempi in un mondo strettamente collegato e interdipendente. In questo quadro, sebbene non si possa negare l'importanza degli Stati nazionali, questi ultimi, come ha sostenuto da Jürgen Habermas in una recente intervista, “devono imparare a considerarsi non tanto attori indipendenti, quanto membri di una comunità più estesa che, in quanto tali, si sentono tenuti a conformarsi a regole comuni”.
È ciò che ci auguriamo tutti in vista di un rilancio di quell'autentico laboratorio istituzionale e politico che è l'Unione Europea.
Italicando
Da qualche giorno è on line “Italicando”,il blog di Piero Bassetti, dedicato al mondo “glocal” e, in particolare, alle grandi comunità diasporichecome gli anglosassoni, gli ispanici, gli italici, che si affermano sempre più come attori politici emergenti.
Uno spazio aperto per riflettere, discutere, "italicare"...
Per leggere e commentare: www.globusetlocus.org/blog
La recensione del mese
Perché la globalizzazione funziona, Martin Wolf, Il Mulino 2006
Perché la globalizzazione funziona. Qualcuno potrebbe obiettare che un simile titolo, dato a un saggio che si occupa dei processi globali e del benessere che apportano o non apportano alle società umane, sia un’affermazione quantomeno affrettata. L’obiezione che viene generalmente mossa è che la globalizzazione “funziona”, ma solo per alcuni.
L’autore del libro, già senior economist della Banca Mondiale ed editorialista del Financial Times, non ha però dubbi sul fatto che l’evoluzione in senso globale e globalizzante dei rapporti fra le singole realtà nel mondo sia produttiva e, in definitiva, costituisca il sistema migliore per integrarle orientandole verso la democrazia e il liberalismo economico, sistemi di governo politico e di mercato insuperati secondo Wolf.
Wolf afferma che “questo libro non è un’opera accademica ma un’opera di persuasione. Prende il via dalla premessa che un mondo di mercati integrati dovrebbe portare grandi benefici alla maggioranza della popolazione mondiale. (�) L’interazione tra stato e mercato dà luogo alla democrazia liberale moderna, senza dubbio il sistema migliore per gestire una società, i cui benefici devono essere estesi al maggior numero possibile di persone. Il problema, attualmente, è il difetto di globalizzazione e non l’eccesso. Una giusta combinazione di mercati liberali e di cooperazione a livello internazionale potrebbe dare grandi risultati”.
Per quel che riguarda la limitata integrazione nell’evoluto sistema mondiale, di cui alcuni fanno parte attivamente mentre altri sembrano più che altro subirne gli effetti, Wolf rovescia il discorso che individua nell’impotenza della politica di fronte allo strapotere dell’economia la causa delle profonde differenze di sviluppo. L’autore sostiene invece che “il principale ostacolo che impedisce di migliorare il mondo in cui viviamo è la frammentazione politica. Sono le profonde differenze nella qualità istituzionale degli stati a determinare il persistere delle disuguaglianze a livello mondiale”.
L’invito a migliorare le politiche economiche piuttosto che le teorie economiche (che ci sono già e che, in particolare quelle efficaci, andrebbero applicate) è, allora, il contributo più originale che questo dettagliato saggio offre al dibattito sulla globalizzazione perché “l’idea secondo cui esiste una contrapposizione fra stato e mercato è errata. Il mondo ha bisogno di più globalizzazione, e potremo avere una globalizzazione più estesa e migliore solo se avremo governi migliori”.
Sembra però che Wolf, enfatizzando l’importanza dell’integrazione economica, non approfondsca abbastanza le condizioni strutturali alla base dei fenomeni di globalizzazione, come il radicale mutamento delle categorie tradizionali di tempo e spazio dovuto ai progressi tecnologici.
Da un punto di vista glocale, una maggiore e più equa globalizzazione si sviluppa a partire dall'integrazione, sia economica che culturale, di luoghi concreti, in grado di interagire liberi da condizionamenti politici. Un'efficace governance, e cioè un governo che non accentra e non isola, dovrebbe corrispondere quindi agli auspici di Martin Wolf.