Globus et Locus newsletter n.11/12 2010

  Le prossime sfide del mondo glocal


Se, al termine del 2010, riconsideriamo con attenzione l’anno che sta per chiudersi, non possiamo che trarne la convinzione che le problematiche del glocalismo hanno avuto conferma. Basti pensare ad alcuni dei numerosi eventi che hanno segnato la recente attualità del mondo glocal, dall’impatto sulla mobilità dato dall’eruzione del vulcano in Islanda, all’episodio della British Petroleum nel Golfo del Messico, alla crisi di Europa e Stati Uniti in concomitanza dell’espansione dei BRIC, o all'affermazione su scala planetaria dei social network.

Tutto questo ci rivela che lo sforzo di considerare le sfide della glocalizzazione come segni di sconvolgimenti profondi e radicali che non si possono affrontare pensando di traslare gli approcci di un mondo che ormai è tramontato è importante e necessario.

In questo quadro, noi di Globus et Locus non possiamo che proseguire, con sempre maggior convinzione, con il nostro impegno, che è quello di sensibilizzare i nuovi attori del mondo glocal per aiutarli a sviluppare azioni coerenti con la logica del “mondo piatto”, per dirla con Friedman. Le direttrici lungo le quali intendiamo sviscerare la problematica del rapporto tra globale e locale continueranno ad essere collegate all’elemento-simbolo della globalizzazione: la mobilità, delle persone, delle cose e dei segni. Proseguiremo quindi con il lavoro sulle problematiche di governance che la nuova organizzazione del mondo pone e contestualmente con le riflessioni su come fenomeni quali il web e le nuove tecnologie stiano trasformando il mondo, rendendo orizzontali le connessioni e facendo nascere nuovi popoli glocal, “tribù” nate in rete dalla condivisione di pratiche, valori o interessi comuni. Fra questi, gli italici.

Su queste premesse, nel corso del 2010 in Globus et Locus abbiamo sviluppato una serie di attività di ricerca e progettuali su temi quali il regionalismo in chiave glocal (ne è un esempio l'analisi politica sfociata nella prefazione del libro “La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord”, che ha poi dato vita a una serie di dibattiti in Italia, il più recente dei quali insieme al presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, durante le Giornate del Mezzogiorno; o la ricerca sulle "Relazioni della Regione Lombardia con i paesi del Mediterraneo", realizzata insieme a Promos-Camera di Commercio di Milano e al Dipartimento di Geografia dell'Università degli Studi di Milano); le mobilità, tema su cui abbiamo sviluppato un lavoro su diversi fronti, sia sulla mobilità delle merci che su quella dei nuovi popoli glocal (pensiamo al libro Italic Lessons e agli eventi di presentazione di Torino, New York e Philadelphia) e l'evoluzione dei linguaggi(attraverso la partecipazione attiva ad eventi quali la Piazza delle Lingue dell’Accademia della Crusca e il Convegno della Comunità Radiotelevisiva Italofona, a Lugano, di cui si parla in questo numero della Newsletter).

Per il 2011, intendiamo proseguire con questo lavoro, insieme ai nostri soci e collaboratori. In particolare, per quanto riguarda le nuove mobilità, stiamo lavorando sulla mobilità dei flussi immateriali, mentre sui temi legati alle nuove identità glocal e ai linguaggi, segnaliamo l'uscita del call for paper di un convegno che stiamo organizzando con il Center for Italian Studies della prestigiosa University of Pennsylvania e in collaborazione con l’Ambasciata italiana a Washington e il Consolato Generale di Philadelphia, dal titolo “From the unity of Italians to the unity of Italics. Languages of Italicity all over the world”.
Inoltre, nel 2011, contiamo di ampliare lo spazio anche per una riflessione sul tema della formazione della classe dirigente e anche su questo stiamo già lavorando.

È in questo quadro di impegno e di costante disponibilità che vogliamo augurare a tutti coloro che ci seguono e che collaborano con noi Buone Festee un arrivederci al 2011.

Piero Bassetti


   L'italiano nostro e degli altri


Dopo 25 anni di attività, a Lugano la Comunità Radiotelevisiva Italofona discute le evoluzioni dei linguaggi dell'italicità nel mondo.

Nello sviluppo delle riflessioni sulla problematica del glocalismo, Globus et Locus ha sempre trovato un interlocutore particolarmente significativo, data la sua natura intrinsecamente glocal, nella Svizzera. In particolare, in Canton Ticino abbiamo sviluppato una collaborazione con Coscienza Svizzera, con la città di Lugano (nostro socio) e la Comunità Radiotelevisiva Italofona. Proprio quest'ultima, giunta al 25esimo anno di attività, si è riunita a Lugano, per il suo Convegno annuale, quest’anno dedicato al tema “L’Italiano nostro e degli altri”.

All'incontro, si è parlato del futuro della lingua e della cultura italiana nell’era glocale un apprezzato contributo è stato portato anche da Globus et Locus, attraverso la presenza del suo Presidente, Piero Bassetti.
Tra le novità si segnala la nomina del nuovo presidente, Dino Balestra, Direttore della Radiotelevisione della Svizzera italiana. Balestra - che subentra a Remigio Ratti, presidente uscente, il quale ha ricevuto numerosi apprezzamenti e attestazioni di stima per il lavoro svolto - nel suo intervento introduttivo ha posto il tema del ruolo che la Comunità Italofona è chiamata a svolgere per favorire l’aggregazione dei soggetti che si riconoscono nella comune identità italica, partendo dalla consapevolezza che, oggi, l’italiano e la cultura italiana nel mondo si esprimono sempre di più attraverso una pluralità di linguaggi e non tramite la sola lingua italiana.
Per rispondere a questa sfida, il nuovo presidente ha suggerito di articolare la riflessione e le attività lungo tre interessanti concetti, che a suo avviso sono particolarmente in linea con la sensibilità italica: la prossimità, la frontiera, il piacere. La prossimità nasce dalla comprensione che, nel mondo glocal, ci si aggrega più per affinità che in base alla condivisione di uno stesso territorio; la frontiera ci richiama a tener presente la nascita di nuove lingue e linguaggi nel mondo multimediale e multicanale in cui viviamo; il piacere è, infine, quello che scaturisce dal suono della lingua, dalla bellezza della letteratura, dell'arte, della musica, della gastronomia italiche.

Questi temi sono stati ripresi dallo scrittore Paolo Rumiz, nel suo evocativo intervento “Le sensazioni di un viaggiatore italiano in giro per il mondo”, con cui ha aperto la Tavola Rotonda del pomeriggio condotta da Michele Fazioli, con Piero Bassetti, Giacomo Mazzone, Nicoletta Maraschio, Mira Mocam, Suor Maria Teresa Rattie Ingrid Rossellini (tramite intervista video).
Proprio partendo dal tema del viaggio, Piero Bassetti ha poi sviluppato il suo intervento, nel quale ha posto una serie di problematiche sulle modalità per rispondere concretamente alle sfide che si profilano per la Comunità Italofona e per tutti noi, che sono poi state ampiamente riprese dagli altri interlocutori presenti.

Il Presidente di Globus et Locus ha infatti richiamato l’attenzione su una tematica centrale, e cioè quale italiano si vuole vedere diffuso nel mondo, prendendo atto che i popoli, oggi, sono più vicini alle civilizzazioni che li esprimono che non al passaporto che possiedono. Questo vale anche per l’italicità, la quale al suo interno accoglie la presenza di un meticciato identitario (e anche di cittadinanza, basti pensare al passaporto europeo) e parla una lingua spuria, figlia delle contaminazioni subite nei diversi luoghi frequentati. L’italicità, in quanto pluridentitaria e glocale, è quindi anche plurilinguista. In questo contesto, la lingua di riferimento per gli italici potrebbe anche non essere più unicamente l’italiano, ma l’inglese.

Queste considerazioni sono state riprese e condivise da Giacomo Mazzone, Direttore dell’Audit Strategico di European Broadcasting Union, il quale ha messo in luce come il fatto che la presenza della lingua italiana nel settore dei media, a livello mondiale, non sia rilevante può anche essere letto come la capacità di non porsi in modo invasivo nei confronti di altre culture e dunque dimostrare che gli italici sono pronti ad aprirsi alla pluriidentità.

Una sfida, questa, di fronte alla quale Globus et Locus ha riconfermato la sua disponibilità a dare il suo contributo.
 

   Quali tematiche al centro di Europa 2020


Coesione, strategia industriale per l’innovazione, funzionalismo e governance multilivello: le carte dell’Unione per Europa 2020.

A poche settimane dalla pubblicazione del quinto Cohesion Report della Commissione europea, che segna un’ulteriore tappa della discussione sul fondamentale capitolo di programmazione finanziaria 2014-2020restano aperti interrogativi di fondo che meritano attenzione.

Le scelte da compiersi per il ruolo delle autorità subnazionali sono su più fronti: dall’autonomia nel definire gli obiettivi locali per l’utilizzo delle risorse (rispetto al vincolo rappresentato da quelli generali della strategia EU2020, sul cui disegno i livelli decentrati hanno avuto ben poca voce in capitolo); all’entità delle risorse stesse (che dipenderà dall’esito dei negoziati con gli stati membri) fino alle ricadute in merito al concetto di sussidiarietà nelle sue concrete applicazioni europee.
Le prossime tappe, in primis il quinto Cohesion Forum di Bruxelles a fine gennaio 2011, daranno indicazioni ulteriori. Per ora si possono registrare alcune reazioni piuttosto critiche, giunte anzitutto dall’Assembly of European Regions, che il 7 dicembre ha reso pubblico un comunicato in cui "deeply regrets the failure to include regions as full partners alongside the European Union and its Member States". Tra i principali punti di frizione, l’impressione che la proposta della Commissione possa penalizzare le regioni, in quanto esse vedrebbero condizionati i fondi strutturali all’implementazione - da parte degli stati - di riforme non inerenti le politiche di coesione.
Dal canto suo, un’altra voce significativa, quella del Council of European Municipalities and Regions, pur sottolineando l’importanza dell’accento posto sul ruolo delle città nella definizione delle nuove politiche di coesione, paventa una riduzione dell’autonomia decisionale decentrata.
Vale però la pena di considerare un ulteriore "sasso nello stagno" lanciato dalla Commissione il mese scorso, quando è stata licenziata la comunicazione “Una politica industriale integrata per l’era della globalizzazione. Riconoscere il ruolo centrale di concorrenzialità e sostenibilità.”

Il tema vero, relativamente all’industria, è di orizzonte, anche perché fino a pochi anni fa le "locomotive" europee consideravano l’idea di una politica industriale comune con molto fastidio; invece proprio su questo, oggi, interviene il documento della Commissione, sviluppando uno degli assi anticipati nel marzo scorso dalla strategia Europa 2020. Tra le «iniziative faro» previste da quel testo, An industrial policy for the “globalisation era” centrava l’analisi sulle piccole e medie imprese. La Commissione riconosceva l’esigenza di lavorare a contatto con gli stakeholders (le imprese stesse, le università, i sindacati, le Ong) per innovare il settore manifatturiero tramite interventi "a valle" e "a monte" della catena internazionale del valore. 

Nella comunicazione appena licenziata, mentre si constata, con qualche punta di anacronismo, che Cina, India e Brasile stanno rapidamente colmando il divario che li separa dal mondo industrializzato, in termini di produttività e innovazione l’enfasi cade sulla centralità dell’industria nella strategia Eu 2020. L’interazione tra sfera pubblica e privata (alias partenariati dell’innovazione) dovrebbe esercitarsi sui servizi ricavabili integrando le reti energetiche a quelle trasportistiche e delle comunicazioni; temi che suonano come un benvenuto recepimento del funzionalismo quale tessuto connettivo politico dell’Europa futura.
Quanto ai settori verso i quali indirizzare le forze, la Commissione sembra voler compiere delle scelte e indirizzandole verso le sfide di fondo inerenti l’invecchiamento della popolazione o i cambiamenti climatici.
Si avanza a piccoli passi, quindi, su un terreno di responsabilità nell’innovazione: l’uso efficiente dell’energia nei processi produttivi, nei materiali, nei servizi, inteso come veicolo per la creazione di industrie totalmente nuove da svilupparsi nel prossimo decennio.

A cura di Francesco Samorè, Dipartimento di Scienze della Storia, Università degli Studi di Milano
 

   Le problematiche identitarie dei G2


La nuova letteratura italica: Igiaba Scego e gli scrittori di seconda generazione.

Nell’ambito delle riflessioni sul tema delle nuove mobilità - e in particolare dei cosiddetti G2, cioè le seconde generazioni degli immigrati- in Globus et Locus siamo interessati ad approfondire, anche attraverso la raccolta di testimonianze dirette, come i nuovi rappresentanti del mondo glocal vivono il rapporto con le loro molte identità.
Per quanto riguarda, ad esempio, il linguaggio e la letteratura, un interessante ambito di approfondimento riguarda gli scrittori immigrati, rappresentanti, più o meno consapevoli, dell’italicità. E’ passato oltre un ventennio da quando sono state pubblicate le prime opere di letteratura in lingua italiana scritte da autori immigrati, come Kossi Komla-Ebri, Amara Lakhous, Jarmila Ockayová, Younis Tawfik, Igiaba Scego. In che modo si inseriscono nel panorama della letteratura italiana contemporanea? Globus et Locus ha raccolto la testimonianza di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, in occasione della presentazione del suo ultimo libro “La mia casa è dove sono”, un testo dove la Scego racconta le sue molte identità e quelle della nuova Italia multietnica. Un’Italia dove - come è stato confermato durante il recente evento promosso da Fondazione Cariplo, la presentazione del XVI Rapporto sulle migrazioni della Fondazione Ismu-  di fronte a 4 milioni e 235mila stranieri iscritti in anagrafe (344mila in più rispetto al 2009), sono proprio i figli degli immigrati a sperimentare maggiormente la problematicità di vivere da stranieri in un paese che sentono come proprio. Nella maggior parte dei casi, infatti, i giovani nati o anche solo cresciuti in Italia si sentono italiani.
Di questi fa parte anche Igiaba Scego, figlia di Ali Omar Scego, ex-Ministro degli Esteri somalo, la quale è nata a Roma nel 1974, dopo che i suoi genitori si sono rifugiati in Italia, fuggendo del colpo di stato di Siad Barre.
Dai suoi libri emerge fino a che punto la ricerca di un’identità sia oggi al centro delle riflessioni di chi, come lei, ha una famiglia che ha vissuto un’esperienza di migrazione. Tuttavia, per ora, pare che l'identità, per lei e per chi ha fatto un percorso simile al suo, si ricerchi ancora all’interno di un piano prettamente “nazionale”: identità, in altre parole, coincide ancora con cittadinanza, possesso di passaporto. “L’Italia è il mio paese”, ha detto la Scego. “In Somalia, fino al ‘73 le scuole erano italiane, io stessa le ho frequentate. […] A scuola si studiava Cavour, il Risorgimento, gli affluenti del Po. Ancora oggi, la mia generazione continua a guardare la TV Italiana e a nutrirsi di cultura italiana, anche se molti hanno scelto di vivere altrove. È un legame molto profondo, che i mutamenti storici e geografici non possono cancellare.”

Anche se la cultura italica è un riferimento irrinunciabile, per chi sceglie di vivere nello Stivale, però, secondo la Scego, i problemi sono ancora molti. Mancano gli strumenti reali per integrarsi, primo fra tutti l’insegnamento della lingua, che invece è amatissima dagli immigrati ed è considerata uno strumento di integrazione. “Il mio rapporto con la lingua è sempre stato cruciale,” conferma la Scego. “Ho sempre scritto in italiano, non saprei scrivere in nessun altra lingua. L’italiano è la mia lingua madre. È la lingua che ha allattato Dante e Boccaccio […].”
Eppure, per rispondere a quella che la scrittrice definisce la sua “schizofrenia identitaria”, basterebbe adeguare il concetto di identità alle riflessioni che Globus et Locus sviluppa da anni, collegandosi alle elaborazioni sull’identità del Premio Nobel Amartya Sen, e cioè riconoscendo che le identità nel mondo globalizzato sono plurime e che oggi chiunque può essere arricchito da una serie di pluriappartenenze, a condizione che le accetti come proprie. L'identità, in questo modo, non è più limitata a una questione di passaporto o di cittadinanza, ma riguarda piuttosto una sensibilità, un modo di essere condivisi.
Infatti, conferma Igiaba Scego, “Io avevo stilato un elenco dei motivi per cui mi sento italiana, ed erano soprattutto motivi culturali, come l’amore per Mina e per Massimo Troisi.”
 

   La recensione del mese


“Ascesa e declino delle civiltà” di Luca G. Castellin, Vita e Pensiero, Milano, 2010.

Le teorie delle macro-trasformazioni politiche di A.J. Toynbee sono l’argomento dell’interessante volume di analisi politico-storiografica di Luca Castellin. Le sorti delle pubblicazioni del grande storico inglese, uno degli analisti più cospicui della “storia generale”, innanzitutto quelle della sua opera maggiore, A Study of History, sono state controverse lungo tutto l’arco del trascorso secolo ventesimo. Se in una decade Toynbee era letto e citato, magari in quella successiva era del tutto negletto. La fortuna delle sue idee, ed è proprio questo che vuole esplicitarci Castellin nel suo volume, è strettamente legata ai tempi storici e politici in cui esse sono state interpellate (o meno) dagli studiosi e da tutti coloro che sono interessati alle vicende storico-politiche delle civiltà umane.
Toynbee, infatti, ha proposto un modello del tutto originale di interpretazione della storia, modello legato più alle grandi fasi - di ascesa, consolidamento e discesa - delle civiltà che a fatti concreti o a situazioni ristrette o isolate. La visione della storia di Toynbee è pure legata a doppio filo al nascere e all’affermarsi delle religioni, tema attualissimo nel globalizzato ma anche frammentato mondo di oggi e ripreso, almeno parzialmente, da un altro storico letto, interpretato e criticato come Samuel Huntington.

 Qual è l’avvenire delle civiltà? Esso può essere interpretato a partire dal loro passato? Vi sono oggettivi cicli di crescita e di decrescita per quel che riguarda ogni e qualsiasi civiltà umana? E queste civiltà sono espressioni politico-socio-economiche isolate oppure grandi agglomerati culturali interagenti? Toynbee propende naturalmente per quest’ultima tesi suggerendo di fatto, col suo ponderoso “A Study of History”, agli studiosi contemporanei una importante possibilità di relazionare la storia delle civiltà alla modernissima scienza che si occupa degli affari internazionali; affari internazionali non più legati alle fortune degli Stati nazione ma ai rapporti fra civilizzazioni di stampo etnico-valorial-religioso.
L’analisi delle tematiche proposte da Toynbee e la ricezione generale della sua opera è chiara e puntuale nel testo di Castellin. Anche perché, come scrive lo stesso Toynbee in “Civiltà al paragone”, “ora io credo che le civiltà nascano e si sviluppino in quanto rispondano con successo a sfide susseguentisi. Si spezzano e cadono se e quando le cimenta una sfida cui esse non riescono a far fronte”; oggi, infatti, cade e si spezza colui (lo stato, la nazione, il sistema economico) che non riesce a organizzarsi all’interno di una civiltà relazionante in grado di rispondere alle sfide della mobilità e dell’intreccio globale.
Ed è propio quello che in Globus et Locus stiamo cercando di fare.
 

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